Dopo aver chiarito che è serio chiamare nuove tecnologie quelle che veramente lo sono e non l’informatica in generale e che i nativi digitali spesso sono solo smanettoni, dobbiamo insistere a chiamare i Social Network col termine corretto di Social Media e non solo per una questione di proprietà di linguaggio che spesso dimentichiamo nei calchi dalle parole straniere.
Social Network, infatti, è la traduzione inglese di rete sociale, realtà che sono sempre esistite, molto prima di internet e del Web.
Rete, in senso di comunicazione, come si usa anche nel linguaggio industriale, “fare rete”, o per citare la Volpe del Piccolo principe “creare dei legami”, tessere relazioni.
Relazioni che sono sempre esistite, a cominciare dalle donne che andavano al pozzo a prendere l’acqua, come faceva “Dina, la figlia che Lia aveva partorita a Giacobbe, che uscì a vedere le ragazze del paese” (Genesi 34:1), e che ora formano le “comitive” e si incontrano nei centri commerciali o le “bande” spesso rivali dei bambini delle elementari con i nomi più fantasiosi (“Il club dei casinisti” è quella di mio nipote), fino al loro naturale scioglimento quando i ragazzini alle medie cominciano a lavarsi di più e a guardare con imbarazzo, timidezza e interesse le ragazzine, formando gruppi di coppiette a sentir loro indivisibili.
Come quando in paese moriva Gigi e lo si sapeva subito, prima dell’affissione dei manifesti, così come se la Maria si sposava lo sapevano tutti, e la solidarietà, assieme a molte invidie e qualche cattiveria, era una cosa tangibile.
Queste reti sociali debbono essere riproposte e rivissute, non in modalità 2.0 ma di persona, come hanno cominciato timidamente a fare dall’anno scorso in qualche condominio a Milano e non solo, istituendo una spontanea banca del tempo di mutuo aiuto, passando avanti gli abiti buoni ma piccoli dei bambini e così via. Anche il crescente fenomeno del book crossing è, a suo modo, una rete sociale tra ignoti che sembra funzionare.
Andare a trovare qualcuno per il piacere di farlo, anche senza preavviso, perché si passa di lì, come succedeva con mia suocera che in paese di giorno aveva la porta sempre aperta e qualcuno, passando di fretta, la apriva e lanciava un semplice saluto vocale.
O come succede tuttora, d’estate, al trullo, che per antonomasia è un luogo aperto. Salvo le ore canoniche pomeridiane nelle quali in estate nessuno si sogna di andare a disturbare nessuno, l’ospite all’improvviso è all’ordine del giorno e della sera, ci si siede e “si ragiona” (si dialoga) per un un po’.
In città tutto è un po’ più complicato, e spesso meno spontaneo, vuoi per gli impegni di lavoro, vuoi per le distanze (una delle quali è la difficoltà di parcheggio), però, suvvia, il tempo quando si vuole si trova.
Ora che le giornate si allungano, (a fine settimana avremo anche l’ora legale, con relativo tormentone, ma questa è un’altra storia) incontrarsi con una o più persone per un progetto comune o anche solo per il piacere di stare assieme, rinvigorisce lo spirito.
Ben vengano i Social Media intesi come Social Network perché quando la lontananza è reale, scambiarsi un’email, una foto su WhatsUp o su Telegram o parlarsi con Skype fa bene. Molti Silver surfer (i vecchietti digitali) hanno imparato a usare queste tecnologie, che loro chiamano diavolerie, per tenersi in contatto con i figli che abitano altrove e, in questo modo, vedere crescere i nipoti.
Purché se ne sappia fare l’uso adeguato e non sostituiscano il contatto umano. Molti non hanno più i genitori o i nonni a cui chiedere “Ma come facevate senza telefono?!”.