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L’AMORE TRA DUE GIOVANI

14 Feb

Per lungo tempo sia da parte ebraica sia cattolica il Cantico dei cantici è stato considerato un’allegoria dell’amore di Dio verso Israele e di Dio verso la Chiesa.

I tempi sono finalmente cambiati e il testo, attribuito per artificio letterario a Salomone, ma come sostiene tra gli altri Amos Oz nel libro “Gli ebrei e le parole” la sua autrice è la stessa protagonista femminile, la Shullamita è considerato un libretto d’amore tra due giovani, nel quale, assieme al libro di Ester, Dio non compare. Il cantico dei cantici, assieme a Qohelet, fu l’ultimo libro ammesso nel canone ebraico e Rabbi Aqiva disse che la Torah non sarebbe stata completa senza di esso.

Non stupisca che un manuale di educazione sessuale, come lo chiameremmo in termini moderni, compaia nelle Scritture anzi ciò è proprio la dimostrazione della loro completezza, che si prende cura dello spirito ma anche del corpo.

La traduzione che ne ha fatto Piero Capelli lo rivela nella sua bellezza, al di là delle traduzioni puritane a cui siamo abituati.

Cantico_copertina

Già all’inizio parla di amplessi, mentre altre traduzioni rendono amore (CEI84) amori (NVB) o addirittura carezze (NR94).

Nel verso 6 la Shullamita parla della “sua vigna” come la CEI, NVB e NR94 ma sapendo guardare oltre per chi conosce il francese richiama l’eufemismo “mon jardin”. Perché nei modi e termini corretti si può e si deve parlare di tutto.

Cantico v_6

Dopo le polemiche seguite all’interpretazione data da Roberto Benigni al festival di Sanremo come quando anni fa trattò i Dieci comandamenti rivelando quei particolari che nel Decalogo della Chiesa cattolica sono stati tolti e per far tornare i conti è stato diviso in due l’ultimo comandamento si spera che più di qualcuno non si sia fermato ad esse ma sia andato a leggerlo per conto proprio.

E mi fermo a questi primi accenni proprio per invitarvi a farlo.

ORA CHE SEI MIO

4 Gen

canticodeicantici

La pubblicità di un mobilificio nazionale propone una coppia di nuovi sposi nella loro casa. Nel dialogo parla prima lei: “Ora che sei mio” e lui  risponde, facendole eco: “Ora che sei mia”.

Lo faccio notare perché è lei che prende per prima la parola, su una base di parità.

Già nel Nuovo Testamento l’apostolo Paolo, in 1ª Corinzi 7:4, dice che nella coppia la potestà del corpo del coniuge spetta all’altro, e nel primo secolo questa era certamente un’affermazione rivoluzionaria che dovrebbe far ricredere coloro che considerano Paolo un misogino, forse solo perché a differenza di altri apostoli scelse il celibato (senza imporlo a nessuno).

A me rammenta il Cantico dei cantici, l’elogio dell’amore di coppia, in cui a narrare la bella storia d’amore è la Sulamita, una donna, in un epoca in cui le donne contavano niente.

(Nella foto la statua “Cantico dei cantici” di Marcello Mascherini, a Trieste).

 

ABBI CURA

28 Dic

snoopylove

Ci sono delle espressioni che in un’altra lingua o in un dialetto sono più pregnanti ed esprimono il concetto in un modo che l’italiano non rende.

Una di queste, che mi piace molto, è l’inglese take care che esprime molto di più del nostro abbi cura.

Quando il Signore domandò a Caino dove fosse Abele questi rispose, “Non lo so, sono forse il custode di mio fratello?”. Penso che il Signore gli avrebbe ribattuto, “Sì, lo sei, perché io ho affidato lui a te e te a lui in un rapporto di reciproci amore e solidarietà” se la tragicità del momento non avesse richiesto una risposta ben più dura.

Take care of yourself corrisponde al nostro riguardati, che va dalla raccomandazione della mamma premurosa di indossare la famosa maglietta di lana a occasioni più serie riguardante la salute.

(In Italia abbiamo conosciuto l’espressione I care durante una campagna elettorale. I care, mi interesso (di te) ).

Ma il semplice take care, usato come saluto di commiato fisico o in calce a un’email (sì, anche a una lettera, esistono ancora 🙂 ) o alla fine di una telefonata tra due persone che si vogliono bene, esprime l‘ἀγάπη agapé, l’amore fraterno e la  ϕιλία, l’amore fra amici che una persona prova per l’altra, a differenza del nostro ciao o del tedesco servus, che etimologicamente esprimono solo disponibilità.

Non va usato verso tutti, proprio affinché non diventi banale come gli americani sono riusciti a fare con love, amore.

QUANTE COSE DENTRO UNA MELAGRANA

28 Set

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La melagrana, assieme alla zucca e più in là alle castagne, è simbolo dell’autunno, nel quale avremo qualche giorno di tempo bello ma le nostre abitudini anche alimentari subiranno inevitabilmente dei cambiamenti. Tra le sue proprietà la melagrana è un antiossidante.

Chi di noi ha studiato le poesie rammenta certamente il Canto Antico di Giosuè Carducci, scritta in memoria del figlio morto:

L’albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da’ bei vermigli fior,

[…]

Nella Sacra Scrittura il melograno è simbolo di abbondanza, assieme a frumento, orzo, viti, e fichi della Terra promessa. La melagrana decorava le vesti del Sommo Sacerdote e i capitelli del Tempio di Salomone.

Rientra nella descrizione delle fattezze della Shulamita, la ragazza protagonista del libro d’amore che conosciamo come Cantico dei cantici, poema attribuito a Salomone per artificio letterario (incipit: “Cantico dei cantici, che è di Salomone”) ma probabilmente, come sostiene tra gli altri Amos Oz nel libro Gli ebrei e le parole, dedicato a lui e scritto da una donna, la Abisag che Davide ormai vecchio si prese, diremmo in termini moderni, come badante notturna affinché dormisse con lui per fargli caldo senza rapporti e che viene alla morte di lui rivendicata da Salomone. Cose che si riescono a comprendere solo avendo una grande padronanza della lingua ebraica.

La bellezza della giovane è descritta nel capitolo quattro del Cantico dei cantici in un crescendo sensuale che nulla ha di volgare e paragona le sue gote nascoste dietro un velo ad un pezzo di melagrana. Descrizione che avrebbe certo fatto infuriare ancor di più la madre di Beatriz, che andò a dire al suo parroco che Mario, il postino di Neruda, “le dice metafore”, nel romanzo di Antonio Skármeta.

(la foto è mia, scattata qualche anno fa a Pirano, in Slovenia).

Il Cantico dei cantici per l’esplicita assenza di Dio nel suo testo assieme a Qohelet, per la sua visione negativa della vita, sebbene riesca a dire nel capitolo tre che “l’Eterno messo nel cuore dell’uomo il pensiero dell’eternità, benché non lo riesca a comprendere dal principio alla fine” con un esplicito richiamo all’albero della vita del giardino di Eden, sono stati gli ultimi due testi inclusi nel canone ebraico.

A COME ALTAMURA, B COME BETLEMME

18 Apr

panedialtamura

Per dare un senso alla Pasqua che non sia di cioccolato, come vuol farci credere la pubblicità.

Forse un gesto scontato nella parte ricca del mondo del ventunesimo secolo è quello di comperare il pane, al forno ma molto più spesso al supermercato come un genere alimentare tra gli altri. Poniamo attenzione, almeno chi lo sa fare, ai diversi vini da accompagnare alle pietanze senza pensare che dovremmo farlo anche con i diversi tipi di pane.

Noi di città conosciamo poco il pane, al più, se siamo per strada di mattina presto prima del caos urbano, possiamo sentirne l’odore che esce dai forni a serranda ancora abbassata, senza pensare a quanti lavorano per farcelo trovare bello caldo e fragrante. Fare il pane, nella civiltà contadina, era una cosa comune, come rassettare la casa e cucinare. Lo si faceva una volta alla settimana perché a differenza di oggi il pane durava più giorni.

Dalla scelta della farina, e ancor prima dalla raccolta del grano, fino alla cottura in forno sono tutti passaggi pregni di significati che pian piano si sono persi.

Qualcuno ricorderà i versi della Spigolatrice di Sarpi di Luigi Mercantini, per averli studiati a scuola. Gli insegnanti ponevano l’enfasi su quei trecento che erano giovani e sono morti senza preoccuparsi troppo della donna.

Spigolare è ciò che facevano i poveri, dai tempi antichi fino a settanta/ottanta anni or sono, andando nei campi a raccogliere le spighe rimaste a terra dopo la trebbiatura. Era un atto di umiltà perché bisognava chiedere e ottenere il permesso per fare una cosa semplice come raccogliere degli scarti. Gli spigolatori del duemila sono coloro che vanno a recuperare gli ortaggi nei cassonetti vicini ai supermercati e non solo.

Una spigolatrice famosa è Ruth, originaria di Betlemme, nella linea genealogica di Gesù, la cui storia possiamo leggere nel libro della Bibbia che porta il suo nome e in cui viene raccontato come un suo lontano parente al quale la donna era piaciuta, la favorì in questo lavoro ordinando ai suoi servi di lasciare delle spighe in abbondanza quando passava lei a raccoglierle.

È forse in ricordo di Ruth, anche se la motivazione si era persa, che settanta/ottanta anni or sono nel primo anno di matrimonio le nuore usavano portare in dono alle suocere la vaccaredda,

la-vaccaredda

in segno sia di affetto sia di riconoscimento della sua autorità. Cose di altri tempi, si dirà oggi. La vaccaredda si portava anche al genitore rimasto vedovo, e si intendeva con questo gesto ripagare la mamma o il papà del latte che avevano donato alla figlia quando era piccola, durante l’allattamento. Scopriamo così l’arcano di questa forma strana che ricorda di mammelle e il gesto di riconoscenza verso i genitori che perdurava fino alla loro morte.

Di pane ci parla Dante Alighieri nel canto decimosettimo del Paradiso, “Tu proverai come sa di sale lo pane altrui, e quanto è duro calle lo scender e ‘l salir per l’altrui scale” perché, per tradizione, a Firenze il pane tuttora è insipido.

Di pane ha scritto Ignazio Silone nei suoi romanzi Pane e vino e Il seme sotto la neve, richiamandosi alla frase di Gesù “Se il seme non muore non può dar frutto”.

Il pane è presente nella nostra cultura nell’espressione, ormai in disuso “Portare il pane a casa”, procacciare il sostentamento per la famiglia con l’onesto lavoro.

Il pane ha sempre avuto un significato simbolico. Le nonne del dopoguerra dicevano che il pane non si butta. In termini moderni si ricicla come pane grattugiato, ingrediente delle polpette dei poveri, gli gnocchi di pane triestini e i canederli altoatesini, bagnato nell’acqua, cibo per gli animali da cortile

Quello di spezzare il pane ormai è un gesto perduto, vuoi perché lo si affetta vuoi perché molti tipi di pane sono a consumo personale, ma in tempi andati aveva una valenza molto forte. Uno stare assieme, un essere parte di uno stesso corpo. Veniva generalmente spezzato dal capofamiglia, quando il desco era un momento di unione della famiglia.

È stato spezzato da Gesù e distribuito ai suoi, assieme al vino passato nell’unico calice, a simboleggiare il suo corpo e il suo sangue. Simboleggiare, perché come leggiamo in Giovanni 6 (il vangelo che non riporta l’ultima cena) gli ebrei l’avevano inteso in senso letterale ed erano rimasti scandalizzati perché la Legge non prevedeva il cannibalismo.

Uno dei pani più famosi in Italia è quello di Altamura, in Puglia, atto ad essere conservato e spezzato a tavola, poche persone però sanno che il nome di Betlemme, la città di Davide e della nascita di Gesù vuol dire “Casa di pane ”. בֵּיִת לֶחֶם, [Beit Leḥem]. Si può anche non saperlo, ma questa città a otto chilometri da Gerusalemme, patria di Davide e Ruth, che ha visto nascere Gesù ha la sua importanza nella storia della salvezza.

“ABBI CURA”

19 Mar

Ci sono delle espressioni che in un’altra lingua o in un dialetto sono più pregnanti ed esprimono il concetto in un modo che l’italiano non rende.

Una di queste, che mi piace molto, è l’inglese take care, che esprime molto di più del nostro abbi cura.

Quando il Signore domandò a Caino dove fosse Abele questi rispose, “Non lo so, sono forse il custode di mio fratello?” penso che il Signore gli avrebbe ribattuto, “Sì, lo sei, perché io ho affidato lui a te e te a lui in un rapporto di reciproci amore e solidarietà” se la tragicità del momento non avesse richiesto una risposta ben più dura.

Take care of yourself corrisponde al nostro riguardati, che va dalla raccomandazione della mamma premurosa di indossare la famosa maglietta di lana a occasioni più serie riguardante la salute.

(In Italia abbiamo conosciuto l’espressione I care durante una campagna elettorale. I care, mi interesso (di te) ).

Ma il semplice take care, usato come saluto di commiato fisico o in calce a un’e-mail (sì, anche a una lettera, esistono ancora 🙂 ) o alla fine di una telefonata tra due persone che si vogliono bene, esprime l‘ἀγάπη agapé, l’amore fraterno e la  ϕιλία, l’amore fra amici che una persona prova per l’altra, a differenza del nostro ciao o del tedesco servus, che etimologicamente esprimono solo disponibilità.

Non va usato verso tutti, proprio affinché non diventi banale come gli americani sono riusciti a fare con love, amore.

“MI MANCHERAI”

10 Nov

So much, in inglese, vuol dire tanto,

so far vuol dire fino a ora,

so long è un saluto americano che non pone l’enfasi sul momento del re-incontro, come il nostro arrivederci o l’inglese see you (again) ma sull’attesa di esso. “Mi mancherai finché non ci rivedremo”.

Come take care, è un saluto confidenziale molto bello, una vera frase idiomatica “tell him so long for me”, “digli ciao da parte mia”.

AFFETTO, AMORE E INIBIZIONI

1 Ott

JoBaez

Ripropongo questo post a beneficio di quanti hanno ironizzato sulla maldestra traduzione in italiano della frase di Donald Trump a proposito dei rapporti con Kim.

Questa è la copertina di un’autobiografia di Joan Beaz, del 1969 negli Oscar Mondadori, lire 1500, ma chi di noi al di sopra di una certa età non ha in casa una biografia di Joan Beaz, di Bob Dylan o dei Beatles?

Il titolo originale è Daybreak, ma voglio soffermarmi sulla scelta dell’editore italiano. Amore e love sono termini inflazionati – c’è chi dice di “amare” un colore per dire che lo preferisce – e dovremmo tornare alla distinzione della lingua greca tra i diversi tipi d’amore.

Direi quindi, “Saresti imbarazzata/o se ti dicessi che ti voglio bene?”.

Posta così, superati gli equivoci, è una domanda molto interessante che dovremmo rivolgere alle nostre amiche e ai nostri amici, perché provare affetto, “voler bene” appunto, come l’amore in una coppia, è qualcosa che va maturata e rinnovata di giorno in giorno, aggiungendo ogni giorno un tassello o un mattoncino Lego, qualche volta accadrà di togliendone uno per un’incomprensione, ma se la relazione è forte resisterà.

Voler bene” è abbassare le difese, fidarsi. A un’amica o a un amico non bisogna “raccontare tutto”, lasciamolo fare alle adolescenti (gli adolescenti sono più riservati), ma essere pronti a farlo quando serve.

Relazione. Una dei maggiori esperti in assoluto, la Volpe del Piccolo Principe, dice che va costruita ogni giorno.

Per questo ogni tanto bisognerebbe salutare un’amica o un amico con un “piacere di conoscerti”, perché nel tempo io sono cambiato, tu sei cambiato, ma continuo volerti bene per come sei, per la ricchezza interiore che solo tu hai.

AFFETTO, AMORE E INIBIZIONI

5 Lug

JoBaez

Questa è la copertina di un’autobiografia di Joan Beaz, del 1969 negli Oscar Mondadori, lire 1500, ma chi di noi non ha in casa una biografia sua, di Bod Dylan o dei Beatles?

Il titolo originale è Daybreak, ma voglio soffermarmi sulla scelta dell’editore italiano. Amore e love sono termini inflazionati – c’è chi dice di amare un colore per dire che lo preferisce – e dovremmo tornare alla distinzione della lingua greca tra i diversi tipi d’amore.

Direi quindi, “Saresti imbarazzata/o se ti dicessi che ti voglio bene?”.

Posta così, superati gli equivoci, è una domanda molto interessante che dovremmo rivolgere alle nostre amiche e ai nostri amici, perché provare affetto, voler bene appunto, come l’amore in una coppia, è qualcosa che va maturata e rinnovata di giorno in giorno, aggiungendo ogni giorno un tassello o un mattoncino Lego, qualche volta accadrà di togliendone uno per un’incomprensione, ma se la relazione è forte resisterà.

Voler bene è abbassare le difese, fidarsi. A un’amica o a un amico non bisogna raccontare tutto, lasciamolo fare alle adolescenti, ma essere pronti a farlo quando serve.

Per questo ogni tanto bisognerebbe salutare un’amica o un amico con un “piacere di conoscerti”, perché nel tempo io sono cambiato e tu sei cambiato, ma continuo volerti bene per come sei, per la ricchezza interiore che solo tu hai.

STORIE DI PIANTE

29 Giu

 

rododendro

La scorsa primavera andammo a visitare un bel parco botanico. Tra le altre meraviglie c’era un grande Rododendro, raffreddato considerata la stagione, ma anche visibilmente triste.

Mi avvicinai e gli chiesi cos’era che lo rattristava. Mi rispose che fino al giorno prima vicino a lui c’era una bella Magnolia e, svegliatosi, non l’aveva vista più.

Sai, gli risposi cercando di tirarlo su, “contrariamente al pensiero comune, anche le piante si spostano, soprattutto se non sono interrate come te ma invasate”.

Hai ragione” mi rispose con quel suo naso chiuso “ma avevo cominciato a volerle bene e ora mi rodo dendro”.