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DI GUERRA, GUIDE E TURISMO

1 Feb

Prima delle Lonely Planet esistevano già buone guide turistiche.

Una è Viaggio in Italia di Wolfang J. Goethe, che racconta il suo percorrere la nostra penisola dal 1786 al 1788. Più di qualcuno la giudica vecchiotta perché non considera i voli low-cost e le varie Frecce di Trenitalia. Però offre molti spunti storici dell’Italia del tempo vista da uno straniero, e c’è da tener presente che ai tempi di Goethe la Salerno – Reggio Calabria non era ancora stata completata!

Però la guida per eccellenza, che tocca marginalmente l’Italia citando lo Stretto di Messina resta l’Odissea di Omero. Una guida che Alberto Angela non deve aver letto bene perché, scaduti i diritti d’autore, ne ha fatto una serie televisiva, “Ulisse, il piacere della scoperta”, eppure nell’originale non si trova traccia di un eventuale piacere da parte sua di percorre la distanza di circa 500 chilometri da Troia a Itaca in dieci anni.

Di sicuro è una guida molto ampia. Tralasciati il folclore di Polifemo, della maga Circe che trasformava i suoi ospiti in maiali, ripreso poi da Carlo Collodi in Pinocchio che nel capitolo del Paese dei balocchi fa trasformare i discoli in ciuchi e delle sirene, che nulla avevano a che fare con quella di Andresen, tanto per essere chiari, molto attuale è il racconto del suo naufragio nell’isola dei Feaci e di come Nausica, trovatolo sporco sulla spiaggia non lo respinge ma lo aiuta senza domandargli il passaporto. Lo si trova, per chi voglia leggerlo, nel Libro VI.

Non si può parlare di Odissea senza citare l’Iliade, il diario degli ultimi 59 giorni dell’assedio decennale di Troia da parte degli Achei, cominciata per una storia di donne contese e che avrebbe dovuto durare solo un mordi e fuggi.

Attuale, vero?!

L’Iliade, a saperla leggere, non è un libro di guerra, ma il diario di gente che resasi dalla stupidità della guerra cerca la pace. Si, certo, c’è sangue e ci sono battaglie all’arma bianca, ma fateci caso, nel duello tra Achille e Ettore, è il secondo a morire, ma anche ad essere più famoso. Di Achille, in giro, ne abbiamo o abbiamo avuti pochi (Achille Togliani, Achille Campanile, Achille Ochetto) ma di Ettore quanti ne volete, a cominciare dal salumerie di una volta sotto casa.

Gran parte di quei cinquantanove giorni non vengono passati in battaglie, ma in banchetti e soprattutto riunioni per vedere come finire quella querra assurda.

Anche questo, per chi sa leggere, molto attuale.

“LE VALLI VALDESI”

16 Gen

Lunedì scorso la trasmissione Geo di Rai3 (da 2:36:37) ha concluso la puntata nel suo spirito naturalistico con un documentario sul “Lungo inverno nelle valli valdesi”. Tutto vero, ma ha fatto passare l’idea che quella comunità, simile più agli Amish americani, rispecchi la chiesa Valdese in Italia (il termine chiesa non è mai stato usato!), che come sappiamo soprattutto dopo il salvataggio dei migranti curdi è invece una realtà dinamica, non isolata, e al servizio del prossimo.

La Rai, in quanto servizio pubblico, dovrebbe stare attenta a non veicolare messaggi errati nei suoi programmi, considerando quanto poco è conosciuto il protestantesimo in Italia.

ULISSSE NON AVEVA IL PASSAPORTO

13 Gen

Come molti di coloro che fuggono e sbarcano a Lampedusa, o altrove, e coloro che non ce l’hanno fatta.

Si potrà dire che l’Odissea è un poema, ma in questo testo troviamo tutta la pìetas verso lo straniero, che, sbattuto dai flutti, si ritrova sporco, affamato e stanco sulla spiaggia di un’isola di cui neanche conosce il nome, e incontra una persona, in questo caso una donna, che lo soccorre senza fargli troppe domande e senza chiedergli il passaporto, ma pronta ad aiutarlo.

Molto attuale, non trovate?

(Il testo è lungo, l’essenziale è nelle enfasi)

Omero, Odissea, Libro VI, 212 – 437 enfasi mie.

[…]

Regina, odi i miei voti. Ah degg’io dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle dive che in Olimpo han seggio,
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l’immortal Dïana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s’allarga e brilla
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe.
Ma felice su tutti oltra ogni detto,
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D’illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s’offerse unqua nel volto
O di femmina, o d’uomo, alle mie ciglia:
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì che un giorno in Delo,
Presso l’ara d’Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi seguìa gente armata in quel viaggio
Che in danno rïuscir doveami al fine.
E com’io, fìssi nella palma gli occhi
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello;
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benché m’opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito dell’Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.
Scampai dall’onda ier soltanto, e un nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred’io gli eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m’addita; e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,
Si compiaccian largir: consorte e figli,
E un sol volere in due, però ch’io vita,
Non so più invidïabile, che dove
La propria casa con un’alma sola
Veggonsi governar marito e donna.
Duol grande i tristi m’hanno, e gioia i buoni:
Ma quei ch’esultan più, sono i due sposi”.

O forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato e dappoco”, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.
“L’Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men che al buon felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte
La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste o d’altro,
Che ai supplici si debba ed ai meschini,
Non patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti
Degli abitanti. È de’ Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell’impero”.

Tal favellò Nausica, e alle compagne:
Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perché v’apparse un uomo?
Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti
Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.
Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
Solitari viviam, viviam divisi
Da tutto l’altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.
Su via, di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete, e pria d’un bagno
Colà nel fiume, ove non puote il vento”.

Le compagne ristêro, ed a vicenda
Si rincorâro, e, come avea d’Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa
Nell’ampolla dell’ôr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimîro. Ma l’eroe: “Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave,
Finché io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m’unga
Dell’oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro;
Ché tra voi starmi non ardisco ignudo”.

Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl’incrostò le larghe
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s’astergea. Ma come tutto
Si fu lavato ed unto, e di que’ panni
Vestito, ch’ebbe da Nausica in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior d’aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de’ capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell’arte
Nulla celaro Pallade o Vulcano,
Sparge all’argento il liquid’oro intorno,
Sì che all’ultimo suo giunge con l’opra:
Tale ad Ulisse l’Atenèa Minerva
Gli omeri e il capo di decoro asperse;
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato e di beltade.

La donzella stordiva; ed all’ancelle
Dal crin ricciuto disse: “Un mio pensiero
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli, d’uom vile e abbietto
Vista m’avea da prima, ed or simìle
Sembrami a un dio che su l’Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i numi a sposo
Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda”.

Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo e bevanda
All’ospite imbandîro, e il paziente
Divino Ulisse con bramose fauci
L’uno e l’altra prendea, qual chi gran tempo
Bramò i ristori della mensa indarno.

Qui l’occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.
Poi così Ulisse confortava: “Sorgi
Stranier, se alla cittade ir ti talenta
E il mio padre veder, nel cui palagio
S’accoglieran della Feacia i capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,
Cotal modo terrai. Finché moviamo
De’ buoi tra le fatiche e de’ coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D’angusta foce, un quinci e l’altro quindi,
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.
Tra un porto e l’altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo
L’antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi,
Gomene e vele, a racconciar s’intende,
E i remi a ripulir: ché de’ Feaci
Non lusingano il core archi e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s’abbattesse a noi
Della feccia più vil: “Chi è”, non dica,
“Quel forestiero che Nausica siegue,
Bello d’aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, e le comparve un nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D’uom d’altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l’ambìano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto”.
Così dirìano; e crudelmente offesa
Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chïunque osasse,
De’ genitori non contenti in faccia,
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a’ miei detti bada; e leggermente
Ritorno e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi ed a Minerva sacro
Ci s’offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d’uomo, il bel podere
Giace del padre, e l’orto suo verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t’inurba, e cerca
Il palagio del re. Del re il palagio
Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino
Vi ti potrìa condur; che de’ Feaci
Non sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche; e presso
S’alza del padre il trono, in ch’ei, qual dio,
S’adagia, e della vite il nèttar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
De la madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natìe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno.
Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto”.

Detto così, della lucente sferza
Diè sulle groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciâro il fiume addietro.

[…]

L’ALTRO

3 Set

Nel sermone dal monte Gesù di Nazareth tra le altre cose dice: Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”, richiamando il comando in Levitico 19:18 “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Matteo 5:4)

La sconda parte, odierai il tuo nemico, non trova spazio nelle Scritture, ma è un’aggiunta di comodo dei rabbini che circolava all’epoca di Gesù. In Levitico 19, ai versetti 33-34, troviamo invece scritto “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto”.

Le mie citazioni sono quasi sempre dalla traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana. Sembra strano che un leader politico non le conosca, come ha dimostra nel suo show del febbraio scorso, “Gli ultimi saranno i primi”. Così Matteo Salvini in piazza Duomo sul palco di “Prima gli italiani. Ora o mai più, mostrando un rosario e citando “un Matteo più importante di me, che non è Renzi“. “Me lo ha regalato un don, fatto da una donna che combatte in strada, e non lo mollo più”, ha detto il leader della Lega. Il Matteo più importante di lui è con tutta evidenza l’evangelista della mia prima citazione.

Non si possono estrapolare le frasi della Bibbia che fanno comodo, facendo loro dire ciò che non dicono.

I nostri nonni o genitori, come gli ebrei della Bibbia (che andarono in Egitto in seguito a una carestia), sono stati forestieri per lavoro in Belgio, Germania, Sud America e Australia, e hanno sbattuto il naso di fronte a molti cartelli “È vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Senza andare all’estero basterà ricordare i cartelli “Non si fitta ai meridionali” a Torino, dove molti andavano a lavorare alla Fiat, quei terroni i nonni dei quali furono mandati a combattere sul fronte nordorientale della Ia guerra mondiale, senza sapere perché (“lì, dove le pietre le chiamano sassi”, come diceva un mio amico pugliese).

Prima – avverbio di tempo – ha senso solo se c’è un dopo, altrimenti in italiano si dice solamente, e di fronte alle chiusure spesso pretestuose, come sta succedendo a Monfalcone, con impedimenti burocratici contro la costruzione del centro islamico e il diniego della erezione di tre gazebo per la festa della fine del Ramadan perché è un evento contrario all’identità locale, quando poi scopri che nelle sagre – autorizzate – trovi dalla cucina romana a quella australiana (notizia di oggi è che anche il comune di Pordenone autorizza solo i cibi autoctoni) e tutta la polemica che ne è sortita dalla “quota 45” dei bambini stranieri, che a Monfalcone sono quasi esclusivamente bengalesi

Un vero peccato perché la vicina Trieste è sempre stata un meltin pot, una fucina di interscambio di idee il cui unico ostacolo poteva eventualmente essere quello linguistico (all’inizio dello scorso secolo, invece, la borghesia parlava indifferentemente italiano, sloveno e tedesco). Certo, “dispetti” di frontiera ce ne sono stati, ce ne sono e ce ne saranno prima con la Jugoslavia e ora con la Slovenia ma sono fenomeni fisiologici che non minano la convivenza. Trieste aveva (da molti anni è chiuso ma dall’esterno si vede la mezzaluna) anche il cimitero turco, proprietà del consolato della Turchia, ma dove turco va letto piuttosto nel senso di musulmano come nel detto di quando Dubrovnik era italiana e si chiamava Ragusa: “No semo (siamo) né turchi né ebrei, semo nobili ragusei”

Le statistiche ci dicono che la paura del diverso e il numero dei reati anche a sfondo sessuale commessi dagli stranieri sono in numero molto inferiore rispetto a quello che il martellamento dei media vuol farci credere. Certo, ci sono zone critiche, ma la microcriminalità quotidiana è anche italiana.

Se invece di imporre divieti, alimentare paure, guardare all’altro con diffidenza, cominciassimo a parlargli, anzi, a parlarci l’un l’altro? Scopriremmo, come ha la fortuna di fare chi lavora nei centri di ricerca internazionali di Trieste (Ictp, Sissa e altri) o chi studia al Collegio del Mondo Unito di Duino, che le differenze ci sono – d’altronde sai che noia se fossimo tutti uguali! – che l’altro è prima di tutto una persona e come tale va rispettata, ma soprattutto che un cinese e un medio orientale hanno uno humor diverso dal nostro ma, fondamentalmente ridono o piangono come noi.

Il titolo del celebre libro di Charles Bukowski A sud di nessun nord dovrebbe rammentarci che siamo sempre il Nord e noi in Italia il Sud di qualcun altro. Certamente della Finlandia, ma anche della Germania e della Francia, che non ci impone terrore o diffidenza, ma ci sta mettendo i piedi in testa dal punto di vista economico.

C’è da riflettere.

BARAK

31 Ago

In Terra degli uomini, il racconto di uno dei naufragi di Antoine Sant-Exupéry, l’autore racconta delle traversie della liberazione di uno schiavo, di come egli dopo l’ebrezza della conquistata libertà avrebbe dovuto fare i conti in capo a tre mesi con la miseria di un un povero, ma libero. “Aveva il diritto di essere se stesso tra i suoi”.

– Su, vecchio Barak, va’ e sii uomo”

[…]

E noi facevamo gesti d’addio al nostro neonato di cinquant’anni, un po’ inquieti nel mandarlo verso il mondo

– Addio Barak!

– No.

– Come sarebbe a dire, no?

– Sono Mohammed ben Lhaoussin, Barak era il nome dello schiavo.

A differenza di noi, in cui è rimasta una traccia nel detto latino Nomen omen, il nome è un presagio, tra gli arabi così come tra gli ebrei il nome non viene imposto a caso o secondo la moda ma tenendo conto del suo significato. Durante la schiavitù Mohammed ben Lhaoussin non si sentiva una persona e poco gli importava se lo chiamavano Barak o in altro modo.

Dovremmo porre più attenzione anche noi, perché l’articolo 22 della Costituzione parla espressamente del diritto al nome. Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

LA DOMENICA DELLE SCOPE

12 Ago

Oggi è domenica 12 agosto e questa, assieme a quella di domani, sarà la vera notte delle Perseidi.

Lontano nella memoria, e sconosciuta ai più, è la domenica 13 agosto del 1950, passata tra gli atti minori della storia come la domenica delle scope.

Con la ridefinizione dei confini seguita alla Seconda Guerra Mondiale, la città di Gorizia fu letteralmente divisa in due, prima con dei cavalli di cavalli di Frisia poi con una cortina di ferro ben strutturata, della quale dopo l’ingresso della Slovenia nell’area Schengen rimane qualche metro a inutile monito del passato, visto che in Europa le cose si ripetono.

Cortina di ferro”, locuzione che fino a quasi trent’anni fa identificava il blocco dei Paesi comunisti satelliti dell’Unione Sovietica, seppure la Jugoslavia del maresciallo Tito e Cuba non fossero allineati.

Il 13 agosto 1950 un gruppo di italiani che furono costretti a passare “di là”, diventando così iugoslavi, ruppe gli argini e per un giorno tornarono in Italia, e acquistarono i beni di prima necessità difficilmente reperibili a Nova Gorica NovaGoriza, nei negozi che fino a sera attuarono un’apertura straordinaria, tra i quali le scope di saggina. L’evento è narrato nel blog ilpinguinoviaggiatore dal figlio di uno dei protagonisti.

Zone di confine nelle quali, nel corso di mezzo secolo, un persona si trovava facilmente a essere nata austroungarica, essere diventata italiana e poi iugoslava forse senza aver capito bene perché.

Più indietro nella storia, intorno al 25 dicembre 1914, il primo anno della Grande Guerra, sul fronte anglo-francese molti militari dei due Paesi cominciarono a scambiarsi dei regali e a organizzare perfino una partita di calcio, iniziative che furono duramente represse nel sangue dai rispettivi comandi ma che dimostrò, se ce ne fosse bisogno, che la guerra, quella che Jaque Prévert in Barbara chiama quelle cornerie, che follia, è organizzata da coloro che stanno a tavolino e che spesso i confini sono segnati con il righello senza tener conto delle realtà (date un’occhiata al perimetro del Texas o di alcuni stati africani, mi rifiuto di commentare quella regione della Turchia che vuole assomigliare a Batman 🙂 ). Questo episodio è ricordato come la tregua di Natale.

Quando udiamo l’espressione “essere nato col colore della pelle o nel posto sbagliato” pensiamo a questi due episodi. Solo così, forse, comprenderemo di far parte dello stesso mondo, della stessa umanità, come scrive Zygmund Bauman in Stranieri alle porte o che Siamo tutti sulla stessa barca, il motto molto significativo che Regata Barcolana ha scelto per l’edizione di quest’anno, riusciremo a guardare l’altro con occhi diversi.

ULISSE NON AVEVA IL PASSAPORTO

11 Giu

Come molti di coloro che fuggono e sbarcano a Lampedusa, o altrove, e coloro che non ce l’hanno fatta.

:-/

Si potrà dire che l’Odissea è un poema, ma in questo testo troviamo tutta la pìetas verso lo straniero, che, sbattuto dai flutti, si ritrova sporco, affamato e stanco sulla spiaggia di un’isola di cui neanche conosce il nome, e incontra una persona, in questo caso una donna, che lo soccorre senza fargli troppe domande e senza chiedergli il passaporto, ma pronta ad aiutarlo.

Molto attuale, non trovate?

(Il testo è lungo, l’essenziale è nelle enfasi)

Omero, Odissea, Libro VI, 212 – 437 enfasi mie.

[…]

“Regina, odi i miei voti. Ah degg’io dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle dive che in Olimpo han seggio,
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l’immortal Dïana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s’allarga e brilla
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe.
Ma felice su tutti oltra ogni detto,
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D’illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s’offerse unqua nel volto
O di femmina, o d’uomo, alle mie ciglia:
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì che un giorno in Delo,
Presso l’ara d’Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi seguìa gente armata in quel viaggio
Che in danno rïuscir doveami al fine.
E com’io, fìssi nella palma gli occhi
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello;
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benché m’opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito dell’Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.
Scampai dall’onda ier soltanto, e un nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred’io gli eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m’addita; e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,
Si compiaccian largir: consorte e figli,
E un sol volere in due, però ch’io vita,
Non so più invidïabile, che dove
La propria casa con un’alma sola
Veggonsi governar marito e donna.
Duol grande i tristi m’hanno, e gioia i buoni:
Ma quei ch’esultan più, sono i due sposi”.

“O forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato e dappoco”, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.
“L’Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men che al buon felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte
La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste o d’altro,
Che ai supplici si debba ed ai meschini,
Non patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti
Degli abitanti. È de’ Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell’impero”.

Tal favellò Nausica, e alle compagne:
“Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perché v’apparse un uomo?
Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti
Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.
Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
Solitari viviam, viviam divisi
Da tutto l’altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.
Su via, di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete, e pria d’un bagno
Colà nel fiume, ove non puote il vento”.

Le compagne ristêro, ed a vicenda
Si rincorâro, e, come avea d’Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa
Nell’ampolla dell’ôr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimîro. Ma l’eroe: “Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave,
Finché io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m’unga
Dell’oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro;
Ché tra voi starmi non ardisco ignudo”.

Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl’incrostò le larghe
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s’astergea. Ma come tutto
Si fu lavato ed unto, e di que’ panni
Vestito, ch’ebbe da Nausica in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior d’aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de’ capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell’arte
Nulla celaro Pallade o Vulcano,
Sparge all’argento il liquid’oro intorno,
Sì che all’ultimo suo giunge con l’opra:
Tale ad Ulisse l’Atenèa Minerva
Gli omeri e il capo di decoro asperse;
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato e di beltade.

La donzella stordiva; ed all’ancelle
Dal crin ricciuto disse: “Un mio pensiero
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli, d’uom vile e abbietto
Vista m’avea da prima, ed or simìle
Sembrami a un dio che su l’Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i numi a sposo
Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda”.

Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo e bevanda
All’ospite imbandîro, e il paziente
Divino Ulisse con bramose fauci
L’uno e l’altra prendea, qual chi gran tempo
Bramò i ristori della mensa indarno.

Qui l’occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.
Poi così Ulisse confortava: “Sorgi
Stranier, se alla cittade ir ti talenta
E il mio padre veder, nel cui palagio
S’accoglieran della Feacia i capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,
Cotal modo terrai. Finché moviamo
De’ buoi tra le fatiche e de’ coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D’angusta foce, un quinci e l’altro quindi,
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.
Tra un porto e l’altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo
L’antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi,
Gomene e vele, a racconciar s’intende,
E i remi a ripulir: ché de’ Feaci
Non lusingano il core archi e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s’abbattesse a noi
Della feccia più vil: “Chi è”, non dica,
“Quel forestiero che Nausica siegue,
Bello d’aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, e le comparve un nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D’uom d’altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l’ambìano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto”.
Così dirìano; e crudelmente offesa
Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chïunque osasse,
De’ genitori non contenti in faccia,
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a’ miei detti bada; e leggermente
Ritorno e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi ed a Minerva sacro
Ci s’offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d’uomo, il bel podere
Giace del padre, e l’orto suo verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t’inurba, e cerca
Il palagio del re. Del re il palagio
Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino
Vi ti potrìa condur; che de’ Feaci
Non sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche; e presso
S’alza del padre il trono, in ch’ei, qual dio,
S’adagia, e della vite il nèttar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
De la madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natìe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno.
Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto”.

Detto così, della lucente sferza
Diè sulle groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciâro il fiume addietro.

[…]

“CORSA ALL’ADOZIONE”

28 Mag

Adottare una persona, considerarla come propria sapendo che è stata generata da altri e darle una seconda occasione, è una scelta di vita motivata e non deve essere fraintesa.

Per questo motivo trovo improprio usare il termine a proposito di cani e gatti, come fanno molti. Sono esseri viventi ma non esseri umani.

Favour è la bambina che nella pietà popolare ora ha preso, purtroppo solo fino al/la prossim*, il posto del piccolo Ayal, la fotografia del quale riverso sulla spiaggia aveva commosso tutto il mondo.

Trovo del tutto fuori luogo i titoli di alcuni quotidiani “È corsa per l’adozione”. Corsa contro il tempo, corsa per arrivare aggiudicarsela, come un trofeo e un domani poter dire, “Sì, si è salvata dal naufragio del barcone, ma se è ancora viva è anche merito mio?”.

No, non credo proprio. La bambina troverà una casa, ma non perché qualcuno ha corso, e se c’è realmente chi la pensa così, cominci a prendere il numero e a mettersi in fila.

PERSONE IN FUGA

18 Mar

Queste sono ormai delle immagini simbolo di persone in fuga, Enea, col padre Anchise e il figlio Ascanio da Troia, Kim Phuc, di nove anni da Trang Bang, Vietnam e un anonimo da Berlino.

Queste sono ormai delle immagini simbolo di persone in fuga, Enea, col padre Anchise e il figlio Ascanio da Troia, Kim Phuc, di nove anni da Trang Bang, Vietnam e un anonimo da Berlino.\n\n\n\nA memoria per noi di quanti stanno fuggendo non svestiti come questi ma in cerca di una nuova identità dopo aver lasciato controvoglia una terra che amavano.\nCome si fa a lasciarli soli?!

Enea

Vietnam

Berlino

A memoria per noi di quanti stanno fuggendo non svestiti come questi ma in cerca di una nuova identità dopo aver lasciato controvoglia una terra che amavano.

Come si fa a lasciarli soli?!

ULISSE NON AVEVA IL PASSAPORTO

13 Mar

Come molti di coloro che fuggono e sbarcano a Lampedusa, o a Idumeni, o di coloro che non ce l’hanno fatta. :-/

Certo, si potrà dire che l’Odissea è un poema e non il tracconto della realtà, ma in questo testo troviamo tutta la pietas verso lo straniero, che, sbattuto dai flutti, si ritrova nudo, sporco, affamato e stanco sulla spiaggia di un’isola di cui neanche conosce il nome, e incontra una persona, in questo caso una donna, che lo soccorre senza fargli troppe domane e senza chiedergli il passaporto, ma pronta ad aiutarlo.

Molto attuale, non trovate?

Il libro (capitolo) è un po’ lungo per chi non è abituato a leggere poesia. Verso la fine sono evidenziati i versi più importanti, a paer mio.

Omero, Odissea, Libro VI, 212 – 437 enfasi mie.

[…]

“Regina, odi i miei voti. Ah degg’io dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle dive che in Olimpo han seggio,
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l’immortal Dïana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s’allarga e brilla
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe.
Ma felice su tutti oltra ogni detto,
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D’illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s’offerse unqua nel volto
O di femmina, o d’uomo, alle mie ciglia:
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì che un giorno in Delo,
Presso l’ara d’Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi seguìa gente armata in quel viaggio
Che in danno rïuscir doveami al fine.
E com’io, fìssi nella palma gli occhi
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello;
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benché m’opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito dell’Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.
Scampai dall’onda ier soltanto, e un nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred’io gli eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m’addita; e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,
Si compiaccian largir: consorte e figli,
E un sol volere in due, però ch’io vita,

Non so più invidïabile, che dove
La propria casa con un’alma sola
Veggonsi governar marito e donna.
Duol grande i tristi m’hanno, e gioia i buoni:
Ma quei ch’esultan più, sono i due sposi”.

“O forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato e dappoco”, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.

“L’Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men che al buon felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte
La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste o d’altro,
Che ai supplici si debba ed ai meschini,
Non patirai disagio.
Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti
Degli abitanti. È de’ Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell’impero”.

Tal favellò Nausica, e alle compagne:
“Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perché v’apparse un uomo?

Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti
Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.
Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
Solitari viviam, viviam divisi
Da tutto l’altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.

Su via, di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete, e pria d’un bagno
Colà nel fiume, ove non puote il vento”.

Le compagne ristêro, ed a vicenda
Si rincorâro, e, come avea d’Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa
Nell’ampolla dell’ôr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimîro. Ma l’eroe: “Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave,
Finché io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m’unga
Dell’oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro;
Ché tra voi starmi non ardisco ignudo”.

Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl’incrostò le larghe
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s’astergea. Ma come tutto
Si fu lavato ed unto, e di que’ panni
Vestito, ch’ebbe da Nausica in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior d’aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de’ capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell’arte
Nulla celaro Pallade o Vulcano,
Sparge all’argento il liquid’oro intorno,
Sì che all’ultimo suo giunge con l’opra:
Tale ad Ulisse l’Atenèa Minerva
Gli omeri e il capo di decoro asperse;
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato e di beltade.

La donzella stordiva; ed all’ancelle
Dal crin ricciuto disse: “Un mio pensiero
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli, d’uom vile e abbietto
Vista m’avea da prima, ed or simìle
Sembrami a un dio che su l’Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i numi a sposo
Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda”.

Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo e bevanda
All’ospite imbandîro, e il paziente

Divino Ulisse con bramose fauci
L’uno e l’altra prendea, qual chi gran tempo
Bramò i ristori della mensa indarno.

Qui l’occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.
Poi così Ulisse confortava: “Sorgi
Stranier, se alla cittade ir ti talenta
E il mio padre veder, nel cui palagio
S’accoglieran della Feacia i capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,
Cotal modo terrai. Finché moviamo
De’ buoi tra le fatiche e de’ coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D’angusta foce, un quinci e l’altro quindi,
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.
Tra un porto e l’altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo
L’antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi,
Gomene e vele, a racconciar s’intende,
E i remi a ripulir: ché de’ Feaci
Non lusingano il core archi e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s’abbattesse a noi
Della feccia più vil: “Chi è”, non dica,
“Quel forestiero che Nausica siegue,
Bello d’aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, e le comparve un nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D’uom d’altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l’ambìano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto”.
Così dirìano; e crudelmente offesa
Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chïunque osasse,
De’ genitori non contenti in faccia,
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a’ miei detti bada; e leggermente
Ritorno e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi ed a Minerva sacro
Ci s’offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d’uomo, il bel podere
Giace del padre, e l’orto suo verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t’inurba, e cerca
Il palagio del re. Del re il palagio
Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino
Vi ti potrìa condur; che de’ Feaci
Non sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche; e presso
S’alza del padre il trono, in ch’ei, qual dio,
S’adagia, e della vite il nèttar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
De la madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natìe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno.
Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto”.

Detto così, della lucente sferza
Diè sulle groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciâro il fiume addietro.

[…]