La prima volta che vidi un’agente con la mitraglietta fu davanti a Montecitorio, non eravamo abituati e mi fece pensare. Il servizio femminile era cominciato da poco.
La prima volta che vidi un’avvocata italiana con il velo fu durante il processo contro un uomo che nel pordenonese aveva ucciso la figlia che secondo lui si era adeguata troppo ai costumi occidentali.
La prima volta che feci caso a un carabiniere di colore fu il corazziere che hanno fatto vedere di guardia al Presidente della Repubblica.
Forse ne avrò visti prima, ma non ne ho mai fatto caso, così come non ho badato troppo alle differenze tra me e i miei due amici, uno filippino e l’altro nigeriano, ora tornati nei loro paesi, o alla signora con il velo addetta all’assistenza utenti della mia biblioteca di riferimento.
Non me ne faccio un vanto, se non per il fatto che esser vissuto a otto chilometri dal confine con l’allora ex Jugoslavia che gli americani di Aviano consideravano comunista e per noi era il confine più bucato d’Europa mi ha fatto capire la necessità dell’inglese come lingua franca e mi ha insegnato la comprensione dell’Altro, che può non pensarla come me.
Leggo molti twitt di solidarietà a Daisy Osakue che pongono l’enfasi sulla sua nazionalità. Li comprendo in questo momento di forte carica emotiva, come comprendo chi esalta le sue doti sportive, ma se fosse stata straniera, come i miei due amici, sarebbe cambiato qualcosa?
Quando capiremo, non lo chiedo ai violenti ma a tutti coloro che pensano che, come è scritto nel sottotitolo del libro Stranieri alle porte di Zygmund Baumand “Noi siamo un solo pianeta, una sola umanità”.
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