Archivio | giugno, 2018

DARE DEL LEI

30 Giu

Esiste un momento nella vita di un bambino in cui non crede più a Babbo Natale, così come ne esiste un altro in cui smette di dare del tu ai “grandi”, che diventano “adulti”, e dà loro del lei, anche se con quelli conosciuti nell’infanzia questo passaggio non avviene perché sarebbe ridicolo.

Dopo la separazione dal corpo della madre, prima con la nascita e poi con lo svezzamento, le altre tappe sono l’ingresso nella vita sociale con il trauma del primo giorno di scuola, che vede i genitori allontanarsi e il bambino alle prese con un mondo nuovo e senza la difesa parentale (un mio amico mi ha raccontato che mentre qualcuno piangeva, qualcuno era contento per la novità, lui, varcando la soglia dell’aula, ebbe la sensazione “qui mi hanno fregato!” 🙂 ).

In questo mondo, quello che una volta era il “signor maestro” o la “signora maestra” i rapporti sono ancora confidenziali, e il bambino, come fa con gli zii, li chiama “maestro Franco” o “maestra Lucia”, continuando a dar loro del tu.

Il vero cambio di registro linguistico avviene con l’ingresso nella scuola media, quando il maestro diventa professore e si aspetta che gli allievi gli diano del lei. Un passaggio verso una diversa considerazione dell’altro, fino all’età adulta nella quale il nostro giovanotto, e la nostra giovane donna, avrà imparato che esistono gli amici, i parenti, i vicini, i colleghi eccetera con i quali rapportarsi in modi e con linguaggi diversi.

Lo scorso 18 giugno un giovane ha dato del tu a Emmanuel Macron, presidente della Repubblica Francese, chiamandolo Manu. Macron non l’ha presa male ma ha tenuto a precisare che non erano su un Social Media ma in piazza per una manifestazione ufficiale e ha chiesto al ragazzo di chiamarlo Monsieur le President e dargli del lei (voi in francese), cosa che, se si ascolta l’audio, ha fatto anche il presidente nei confronti del giovane.

Nel mondo del lavoro succede spesso che, dopo le presentazioni ci si dia del tu tra colleghi, anche di aziende con cui si collabora di frequente. Nelle riunioni apicali o con terzi parti però Maria tornerà a essere la dottoressa Dei Tali.

Anni or sono assistei a un dibattito televisivo per un ballottaggio nel quale uno dei candidati, pur dando del tu al contendente, lo chiamava sempre per titolo e cognome mente l’altro insisteva a chiamarlo per nome. Questione di classe.

Come ho già fatto notare altre volte, nel nostro Mezzogiorno c’è chi anche tra i giovani dà ancora del voi e c’è chi abusa del tu famigliare o amicale trasformandolo in quel “tu pesano” che sovente è solo mancanza di rispetto.

Tornando al nostro bambino diventato ormai ragazzo, che poi è mio nipote che a settembre entrerà nella scuola primaria di secondo grado (vulgo scuola media), a parte il lei che già usa con gli adulti, tra le “istruzioni per l’uso nel cambiamento” sua madre gli ha insegnato a non chiamare “prof” gli insegnanti, ma professore o professoressa seguito dal cognome. Che dopo con noi e i suoi compagni esistano la prof d’italiano, il prof di inglese e l’odiatissima prof di mate e un’altra storia.

PUNTO

30 Giu

Il punto, ci hanno insegnato in geometria, esiste ma non ha dimensioni. Sappiamo di lui perché se tracciamo un segmento tra il punto A e il punto B otteniamo una sequenza di punti, chiamata linea, di una certa lunghezza, se poi tracciamo una linea solo dal punto A essa tende all’infinito e se eliminiamo il punto A di partenza abbiamo una linea senza inizio né fine, e già qui per la nostra comprensione cominciano i guai. L’infinito è n+1 e si annota con il simbolo dell’”8 disteso”, ∞ .

L’espressione “mettere i puntini sugli i”, intesa come precisare qualcosa deriva dall’alfabeto latino. Nei manoscritti spesso la i per la sua forma si confondeva e decisero di renderla evidente con un punto (per una ragione analoga scriviamo USA ma non la sola I per indicare l’Italia).

Oltre al punto ci sono molte cose che non vediamo o non udiamo, come gli ultrasuoni percepiti da altre specie animali, o non sentiamo, nel senso etimologico, ben reso dall’inglese to feel.

Molte cose intorno a noi non le vediamo non perché sono invisibili, ma piuttosto perché i nostri stili di vita ci hanno tolto l’abitudine, o meglio, il gusto, di soffermarci sui particolari.

Accade così che in città ci si accorga dei cambi di stagione non dai fenomeni naturali ma dalla differenza dei capi di abbigliamento esposti nelle vetrine dei negozi. Sempre in città siamo così abituati a guardare davanti a noi che ci accorgiamo della bellezza architettonica di alcuni palazzi solo leggendo una guida o quando un nostro ospite, certo più interessato di noi, ce li fa notare.

Non udiamo il nostro interlocutore perché abbiamo dimenticato che dialogo vuol dire sì parlare in due (dal greco dua logos), ma uno per volta e non nel medesimo tempo come purtroppo spesso accade. È una elementare questione di on/off, quando parli tu io ascolto (e non penso già a come risponderti) e viceversa, come nelle comunicazioni unidirezionali in cui si aspetta che l’altro dica “passo” per cominciare a parlare.

La società postmoderna ci ha privato anche di parte dei sentimenti, come la bellezza di mandare o ricevere una lettera scritta a mano. Al piacere dell’aspettativa si è sostituita l’ansia della comunicazione “Ti ho mandato una mail” spesso è il testo di una telefonata o di un sms, pretendendo che il destinatario la legga ma soprattutto risponda subito (consiglio: disattivate le notifiche, si vive meglio). Lo stesso corteggiamento, che è sempre stato alla base della conoscenza tra due persone e del loro eventuale innamoramento, sottostà alla fretta che ci siamo imposti, spesso bruciando tappe che non potranno più essere vissute.

L’infinitamente piccolo ci conduce necessariamente al concetto di tempo, che, come sappiamo, è una delle tante convenzioni umane. Il presente di per sé non esiste perché nell’attimo in cui lo viviamo e già passato. È per questo motivo che i verbi nella lingua ebraica non hanno il tempo presente come lo intendiamo noi ma usano il futuro (“Io sarò colui che sarò” è la traduzione letterale dell’”Io sono colui che sono” il nome con cui l’Eterno dice a Mosè di indicarlo agli ebrei), e nella lingua inglese si distingue tra “I am going” (sto andando) e “I go” (vado abitualmente).

Il mare è proverbialmente una somma di gocce e ci rendiamo conto che un deserto, o più banalmente una spiaggia, è in realtà una somma di granellini quando, dopo la doccia tornati dalla spiaggia, ce ne troviamo ancora qualcuno addosso.

Quante cose infinitamente piccole, anche se più grandi del nostro punto, si possono scoprire se, abbandonato il Centro commerciale, facciamo un giro con attenzione tra cassetti e contenitori in vetro della vecchia bottega sotto casa o se, lasciata l’autostrada, ci addentriamo nella foresta di strade secondarie poco frequentate, ma con dei tesori nascosti al viandante veloce.

STORIE DI PIANTE

29 Giu

 

rododendro

La scorsa primavera andammo a visitare un bel parco botanico. Tra le altre meraviglie c’era un grande Rododendro, raffreddato considerata la stagione, ma anche visibilmente triste.

Mi avvicinai e gli chiesi cos’era che lo rattristava. Mi rispose che fino al giorno prima vicino a lui c’era una bella Magnolia e, svegliatosi, non l’aveva vista più.

Sai, gli risposi cercando di tirarlo su, “contrariamente al pensiero comune, anche le piante si spostano, soprattutto se non sono interrate come te ma invasate”.

Hai ragione” mi rispose con quel suo naso chiuso “ma avevo cominciato a volerle bene e ora mi rodo dendro”.

 

BARAK

28 Giu

In Terra degli uomini, il racconto di uno dei naufragi di Antoine Sant-Exupéry, l’autore racconta delle traversie della liberazione di uno schiavo, di come egli, dopo l’ebrezza della conquistata libertà avrebbe dovuto fare i conti in capo a tre mesi con la miseria di un un povero,ma libero. “Aveva il diritto di essere se stesso tra i suoi”.

– Su, vecchio Barak, va’ e sii uomo”

[…]

E noi facevamo gesti d’addio al nostro neonato di cinquant’anni, un po’ inquieti nel mandarlo verso il mondo

– Addio Barak!

– No.

– Come sarebbe a dire, no?

– Sono Mohammed ben Lhaoussin, Barak era il nome dello schiavo.

A differenza di noi, in cui è rimasta una traccia nel detto latino Nomen omen, il nome è un presagio, tra gli arabi così come tra gli ebrei il nome non viene imposto a caso o secondo la moda ma tenendo conto del suo significato. Durante la schiavitù Mohammed ben Lhaoussin non si sentiva una persona e poco gli importava se lo chiamavano Barak o in altro modo.

Dovremmo porre più attenzione anche noi, perché l’articolo 22 della Costituzione parla espressamente del diritto al nome. Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

GIRASOLO

27 Giu

girasole

Nome di fiore, m. s.

Il Piccolo Principe ha la sua rosa, quella che lui solo sa distinguere tra tutte le altre, che è diversa da tutte le altre perché è lui che l’ha curata.

Io ho il mio girasole. Mi piacciono i girasoli per il loro colore, per il loro movimento, per il richiamo a Vincent Van Gogh che ne ha dipinti tanti e, si sa, un po’ – ho scritto un po’, non allargatevi! – di pazzia non guasta.

L’anno scorso ne avevo nove ma quest’anno è andata così.

Uno, figlio unico.

Il che mi pone un problema linguistico: debbo chiamarlo col nome comune di girasole in quanto più o meno visibilmente segue il corso del sole o girasolo, perché poverino quest’anno non ha fratelli, anche se è in compagnia di tante bei fiori suoi, come dire?, cugini? 🙂

φιλία

25 Giu

Siamo amici?” Così i bambini si invitano reciprocamente al parco, non sapendo di esprimere uno dei più complessi concetti degli adulti.

L’ITALIA IN DEROGA

24 Giu

Il protocollo di Kyoto non è un film erotico giapponese, come ci informa il rapper Caparezza in Vieni a ballare in Puglia, ma un accordo sul clima ampiamente disatteso, cosi come il presidente degli Stati Uniti abbandonò la riunione di ratifica di quello di Parigi, salvo poi ripensarci, azione per la quale fu duramente contestato.

Ormai molte città, specialmente d’inverno, sono invivibili a causa delle emissioni delle automobili associate a quelle degli impianti di riscaldamento e non passa giorno che un tg o un documentario di ci informi sulle isole di plastica che si stanno formando negli oceani, con le conseguenze e tutti sappiamo sulla fauna marittima e, egoisticamente parlando, sulla nostra tavola.

Eppure in Friuli l’Arpa, ente regionale per l’ambiente, concede deroga alle restrizioni contro l’inquinamento per l’accensione dei pignarul, falò, che un’atavica tradizione contadina vuole che predica, con la direzione del fumo, l’andamento dell’anno, quando nel 2018 si dovrebbe ben sapere che la direzione del fumo è solo dovuta alle correnti aeree. Falò che con altri nomi vengono accesi in molte parti d’Italia in diverse date, tra cui il 23 giugno, vigilia di San Giovanni Battista, mischiando allegramente il sacro con il profano.

Quanto all’inquinamento marino, oltre all’enorme uso di bottigliette e stoviglie in plastica spesso abbandonate per via e nella stagione estiva sulle spiagge, uso che l’Unione Europea intende ridurre, pochi pensano a quanti palloncini gonfiati di elio salgono in cielo solo in Italia ogni anno in occasione di compleanni, matrimoni, funerali e altri eventi.

In occasione dell’ultimo raduno degli alpini a Trieste se ne videro alcuni circolare in tre, quattro, cinque o sei su un Ape50, quei mezzi traballanti che non si capisce perché circolino ancora mentre è stata vietata in Italia la commercializzazione della Citroën 2C. La risposta del comune, incurante della pericolosità per gli alpini e per i cittadini per via, fu che si trattava di un evento eccezionale.

L’eccezionalità dell’evento andrebbe valutata e eventualmente concessa solo se non provoca danno all’ambiente o nocumento ad altra persona. Un po’ come avviene con le deroghe al divieto di circolazione nelle corsie preferenziali che praticamente vengono usate dal panettiere, dal lattaio, eccetera perché lavorano e non possono permettersi di perdere tempo a percorrere la viabilità ordinaria, per fare un solo esempio.

Le tradizioni sono belle perché mantengono viva la memoria storica di una comunità ma debbono tener conto del contesto attuale, perché non i può essere green, esprimo il concetto con il termine che va tanto di moda, a giorni alterni.

MIGRAZIONI INTERNE E ACCOGLIENZA

24 Giu

 

Il primo giugno di anni or sono andai a lavorare a Firenze. Il 24 del mese, giorno di San Giovanni con la mia fidanzata, attuale moglie, andai in gita nell’allora romantica Venezia, senza tornelli e negozi di cineserie varie.

Dopo pranzo mi ritrovai, senza farci caso, a ordinare due “affè”.

Belli quei posti che posti che ti fanno sentire a casa senza che te ne accorga. In una ventina di giorni, infatti, persi la c forte e iniziai a parlare all’impersonale “si va, si viene, si dice” (che tutto sommato può tornare utile: “Chi, noi? No, è un’affermazione di principio” 🙂 ”.

ČERNOBYL’, CATTINARA E FAKENEWS

23 Giu

Nell’edizione delle 13:00 del 26 aprile 1986 il Tg1 diede la notizia del disastro alla centrale nucleare di Černobyl’ in Ucraina, nell’allora Unione Sovietica facendo vedere questa immagine.

ospedale cattinara

Con grande sorpresa i triestini riconobbero l’ospedale di Cattinara a Trieste e letteralmente intasarono il centralino della sede regionale della RAI per segnalare l’errore. La fotografia fu venduta, pare per venti milioni di lire, alla direzione di Roma del Tg1 facendola passare per quella della centrale nucleare da un fotografo francese poi scomparso.

La storia giornalistica è piena di articoli e didascalie costruiti su fotografie che nulla hanno a che vedere con gli argomenti o addomesticate secondo un determinato punto di vista, come quelle dei comizi dove basta pubblicare un certo particolare o un altro per dare la notizia vista da destra o vista da sinistra, come si diceva una volta, o visto dagli organizzatori e dalle Prefetture. Il caso più famoso è quello di piazza San Giovanni a Roma e si è giunti  alla conclusione che in un metro quadro più di tante persone non possono starci, quindi basta moltiplicare le persone per la superficie per dare il numero massimo dei presenti, che non corrisponde sempre con quanto dichiarato.

L’ultima strumentalizzazione di una fotografia pare l’abbia fatta il settimanale americano TIME a proposito dei bambini immigrati negli Stati Uniti pubblicando in copertina questa fotografia

coperina_Time_2

Questa è la disamina sul quotidiano La Stampa di Torino di oggi.

L’informazione è una cosa seria e se, da una parte può esserci – in ordine alfabetico – fretta, sciatteria o scelta determinata – di pubblicare un articolo falso o come in questo caso costruirlo su un’immagine che vuol dire altro, sta nel lettore, dalle previsioni meteo per decidere se recarsi o meno al mare alle cose più serie, verificare su più fonti la sua attendibilità. Anche se si tende a dare fiducia ai quotidiani e settimanali autorevoli l’errore più o meno macroscopico è sempre in agguato.

Viviamo nella società dell’immagine che molte persone per pigrizia prendono come verità, stando al gioco anche di molti pubblicitari, ma mai come questa volta il detto “un’immagine vale più di mille parole” va ribaltato.

DI ESTATE, FORMICHE E SANA PIGRIZIA

21 Giu

Nell’immaginario collettivo, sulla scia di Esopo, la formica è una lavoratrice indefessa messa in contrapposizione alla cicala che passa tutto il giorno a “cantare”.

Fortuna che a mettere le cose a posto ci ha pensato Konrad Lorenz che ne L’anello di Re Salomone spiega che le formiche lavorano solo due ore al giorno e siamo noi a pensare che siano sempre le stesse perché non le distinguiamo.

Almeno in vacanza prendiamo esempio dalle formiche di Lorenz e non da quelle di Esopo!