Archivio | ottobre, 2019

ACHILLE ED ETTORE

28 Ott

Poi ci sono i nomi devozionali, storici e mitologici.

Tra i devozionali del secolo scorso oltre a quelli dei santi più o meno noti troviamo Addolorata e Crocefisso, usati al Sud nel secolo scorso e fortunatamente in via di estinzione, mutati nel parlar comune in Maria e Bisso. E su questi stendiamo un velo pietoso.

Tra i nomi storici troviamo Benito e Fausto, con riferimento a Mussolini e Bertinotti, e qui almeno c’è una qualche par codicio, salvo a conoscere l’idea politica dei diretti interessati.

Ho conosciuto anche un Archimede. Il riferimento poteva essere al siciliano che sfidò il mondo chiedendo un punto d’appoggio per sollevarlo o al più noto Archimede Pitagorico, collega del primo ma un po’ maldestro. Il titolare del nome che conosco io, più semplicemente, mi disse che suo padre era un anticlericale convinto e gli impose quel nome solo dopo essersi accertato che non esiste un sant’Archimede.

Un altro anticlericale convinto è stato Giuseppe Bottazzi, detto Peppone, che voleva far battezzare suo figlio – anticlericale, appunto – Libero Lenin. Quando don Camillo gli disse di andare a farlo battezzare a Mosca, i due raggiunsero un compromesso è al bimbo vennero imposti i nomi di Libero Camillo Lenin. Perché vicino a  Camillo anche Lenin diventa inoffensivo. Ma queste sono storie della Bassa.

I nomi di origine mitologica sono i più diversi, d’altronde con la cultura greca che ci portiamo addosso, o forse ci stiamo lasciando alla spalle, è difficile non incontrarli. Nomi di dei, muse, re ed eroi.

Chi non ha  mai conosciuto un’Argìa, per esempio? Io, fino a quando non l’ho letta su una lapide di ringraziamento per una donazione ad un ospedale.

Rimanendo nei poemi omerici spiccano subito Ulisse l‘astuto, Enea, il fuggiasco da Troia che secondo la leggenda fu progenitore di Romolo, fondatore di Roma, ma anche Ettore.

Ettore, ma non Achille. Achille il duro, l’iracondo, l’invincibile. Figlio di una dea, famoso perché da piccolo diventò invulnerabile in seguito all’immersione nelle acque dello Stige. Invulnerabile in tutto il corpo, salvo il tallone per cui era stato tenuto. Il tallone d’Achille, appunto, rimasto come metafora di “punto debole”. Però, prima di andare su Google, quanti Achille ricordate? A me vengono in mente solo Achille Campanile, scrittore umoristico, Achille Occhetto, politico e Achille Togliani, cantante della prima metà del secolo scorso.

Invece di Ettore ne incontrate quanti volete, dal condottiero Fieromosca fino al droghiere o l’oste sotto casa.

Ettore fu ucciso in battaglia da Achille e fu trascinato legato al carro come segno di vittoria intorno alle mura di Troia.

I vinti coraggiosi lasciano più traccia nella memoria dei loro stessi vincitori.

QUANDO MENO TE LO ASPETTI

19 Ott

Oggi con la famiglia ho passato la giornata in un centro commerciale fuori città. Siamo entrati in un negozio di abbigliamento di un marchio giovanile per cercare un paio di pantaloni e una felpa per mio nipote. Ci ha serviti una persona giovane di colore sulla trentina che mia figlia sembrava conoscere, come cliente, e che per questo motivo ci ha assistito bene.

Ho subito pensato a lui come al commesso, in posizione cioè subordinata, mentre lui è il titolare del franchising e commessa invece è la giovane bianca.

L’ho pensato per un attimo ma mi sono ripreso subito da questo “scivolone”, riflettendo su come anche una persona come me, contraria al razzismo e a ogni altra forma di discriminazione e molto attenta a queste cose, può cadere in errore.

La cosa importante è non abbassare la guardia saper reagire subito.

SBURTÀR RADICIO

16 Ott

Stamani, mentre ero in fila dalla nostra erbivendola di fiducia a comperare del radicchio, mi è sovvenuta l’espressione dialettale “sburtar radicio”, letteralmente “spingere radicchio”. Espressione scherzosa per indicare qualcuno che è morto: Te ga visto Mario? No, xè più de un mese che el xè a sburtar radicio” (“Hai visto Mario?” ”No, è morto da più di un mese “), perché notoriamente il radicchio esce da sottoterra e viene su.

Più che espressione scherzosa è un modo come un altro per parlare del tabù della morte.

Scrivo questa nota prima del 2 novembre. 🙂

USARE SEMPRE IL LINGUAGGIO APPROPIATO

14 Ott

Ho letto in alcuni twitt che Massimo Giletti nella sua trasmissione su La7 ieri sera ha riproposto il tema della dottoressa Serafina Strano, stuprata mentre prestava servizio alla Guardia Medica di Trecastagni.

La lettera con cui la Compagnia d’assicurazione nega il risarcimento è scritta nella perfetta antilingua di Italo Calvino – che, possiamo essere sicuri, sarà usata ancora per molto tempo – liquidando come infortunio lo stupro subito dalla dottoressa. Infortunio, lo dice la stessa radice semantica, deriva da fortuna, è un evento casuale come uno slogamento di una caviglia o la frattura di un braccio. Un atto di violenza su una donna non è casuale – accantoniamo il discorso di raptus del pover’uomo, che non regge – ma un atto deliberato.

Lasciando da parte la trasmissione che non ho visto, quello della sicurezza dei medici in servizio alle Guardie mediche è un tema ancora di attualità, a tutela di tutti gli operatori e del personale femminile in particolare. A poco serve una videosorveglianza e il collegamento con le Forze dell’ordine ad atto compiuto. A Pordenone per un periodo gli ambulatori sono stati presidiati dai membri dell’ANA, quegli alpini che non smettono mai di esserlo e che, oltre a preparare un piatto di pasta alle biciclettate, sono sempre pronti ad intervenire nei disastri naturali.

Tornando all’antilingua di Italo Calvino e alla definizione generica di infortunio usata dalla Compagnia di assicurazione, ci sono termini che sono entrati nell’uso comune, come stupro e mestruazioni, verso i quali è segno di grande ipocrisia usare degli eufemismi, perché i nostri figli li conoscono e perché non siamo più nell’epoca vittoriana, nella quale era sconveniente per una donna pronunciare il termine “pantaloni”.

Della violenza di genere e in particolare della violenza sulle donne si deve parlare ai ragazzi e alle ragazze fin da piccoli, perché se non lo facciamo noi o la scuola cercheranno le informazioni tra i loro pari o, peggio, dal “dottor Gugl”.

Lo si può fare  con i propri figli, magari non ora che sono presi dai libri di scuola, ma proponendo loro l’estate prossima il libro Il buio oltre la siepe, di Harper Lee, ricavato da un fatto vero, che tratta il tema del razzismo nell’Alabama e in Georgia e vede come imputato un giovane di colore, ma che sarà comunque condannato, perché la parola di una donna bianca ha più valore di quella di un nero.

Si può spiegare cos’è una violenza con poche parole, come fa il padre Atticus che nel romanzo risponde alla piccola figlia che tutti chiamano Scott e che, quando richiesto perché impiegasse tempo a difendere un perdente in quanto nero, risponde: “Per vari motivi”, disse Atticus. “Il principale è che se non lo facessi non potrei più andare in giro a testa alta […] e non potrei nemmeno dire a te o a Jem: fa’ questo e non fare quello”. L’esempio viene prima delle parole.

Ci sono libri scritti per ragazzi in realtà destinati agli adulti e viceversa. Questo è uno di quelli. Dipende dalla maturità soggettiva, negli Stati Uniti cominciano a consigliarlo dai dodici anni in su.

PLOG

13 Ott

pennadoca

L’altra sera tornando a casa in autobus stavo rispondendo al telefono ad un amico che mi chiedeva spiegazioni tecniche sul blog (non riusciva ad inviare un commento, anzi, l’aveva mandato a metà, cosa che infatti mi ha fuorviato). Mentre parlavo a bassa voce ho visto una persona in abiti da cantiere che stava scrivendo il proprio plog (crasi inventata sul momento per paper log) su un quaderno a righe di quelli piccoli vecchio tipo delle (mie) elementari. Ha scritto per tutto il tempo del mio tragitto e probabilmente oltre.

Morale: usiamo al meglio le moderne tecnologie, con cui possiamo comunicare velocemente con il resto del mondo, ma non permettiamo loro di dominarci e di tanto in tanto torniamo alla penna, ci aiuta a rimanere umani!

COSA IMPARARE DAL DISASTRO DEL VAJONT

9 Ott

Oggi, i più giovani forse non lo sanno, ricorre l’anniversario del Vajont, disastro non naturale ma causato dall’imperizia umana per aver costruito sotto un monte una diga di contenimento. Furono coinvolti i paesi di Erto e Casso e di Longarone.

Imperizia umana come con l’albergo di Rigopiano, travolto dalla neve.

Il 9 ottobre 1963 costò la vita a 1917 persone.

Ciò che l’informazione tende a o vuole dimenticare è che quasi tutti i giornali scrissero del cedimento della diga, che cinquantasei anni dopo è ancora lì, inutile, se non a monito, mentre fu la cima del Monte Toc a cadere nell’invaso, provocando l’uscita dell’acqua. Un po’ come quando a colazione il vostro pezzo di torta di pan di Spagna si spezza e cade nella tazza del caffelatte, provocandone la fuoriuscita e sporcando la tovaglia.

All’epoca non erano ancora di uso comune i termini scoop e fakenews ma il principio è lo stesso, quasi nessuno aveva verificato la notizia.

Bisogna contare fino a dieci e se serve fino a quindici e verificare da fonti certe prima di premere Enter.

Da fine settembre si dice che Silvia Romano sia stata liberata, ma il Ministero degli Esteri non ha confermato, forse perché sono in corso trattative. Renderle pubbliche senza l’autorizzazione della Farnesina potrebbe forse compromettere tutto.

E sarebbe peggio che asciugare la tovaglia della colazione.

A PROPOSITO DELL’ORGOGLIO

7 Ott

Siamo abituati ad abusare dei sinonimi, o meglio a usare indistintamente termini che esprimono concetti diversi, come ascoltare, udire e sentire. Si può infatti udire il suono di ciò che l’altro dice senza ascoltare, prestare cioè attenzione alle sue parole e di conseguenza non sentire empatia o disapprovazione per quanto espresso, similmente si può vedere per caso o distrattamente qualcosa o guardare con attenzione.

Contadino, cafone e villano, sono sinonimi usati in aree geografiche diverse da Nord a Sud che però nell’uso comune sono spesso usati in senso dispregiativo riguardo alle persone.

Così abbiamo altezzosità, superbia e orgoglio.

Altezzoso è colui che si ritene superiore agli altri, spesso facendolo notare con il suo atteggiamento distaccato, non a caso il contrario è “alla mano”.

Superbo è colui che ha un’esagerata stima di sé, e dev’essere un vizio antico visto che uno dei re di Roma, Tarquinio, nipote di Tarquinio Prisco, è passato alla storia con questo appellativo non certo gratificante.

L’orgoglio, se vissuto bene in modo da non cadere nell’altezzosità o nella superbia, è una marcia in più, un rafforzamento dell’autostima della persona. Dobbiamo essere orgogliosi, senza necessariamente vantarcene a destra e a manca, di un lavoro fatto bene o un traguardo raggiunto, perché spesso ci dimentichiamo che per voler bene al nostro prossimo dobbiamo voler bene a noi stessi. Dobbiamo essere orgogliosi dell’educazione data ai nostri figli e traferire loro nel modo opportuno questo sentimento, che riguardi un bel voto o a scuola o una loro piccola o grande conquista sociale (qui non c’entrano nulla l’eventuale gelato ai più piccoli o la mancetta ai più grandicelli).

Questo post nasce da un twitt di @francy_0207 che il 3 ottobre ha scritto:

“Mamma, quanto mi da fastidio quando dicono che voi #donne siete deboli o ridono di voi…” “E chi lo fa?” “A volte anche i miei compagni… Ma io vi difendo perché siete forti, molto più forti. E sono un uomo eh!” (Matteo).

In sole quattro righe questo piccolo ma solo di taglia aspirante uomo dimostra di aver capito molto di più di molti maschi adulti.

Come non essere orgogliosi o se volete, fieri, di un bambino che si esprime così, che in tutta evidenza ha ricevuto un’educazione al rispetto verso le donne in famiglia, prima ancora che a scuola!?

Dedicato a Matteo e a sua mamma Francisca.

LA SOLITUDINE DEI CITTADINI

3 Ott

Una decina di anni or sono è morto un mio vicino. Io e lui qualche volta ci frequentavamo. Parlavamo di informatica o di letteratura, o giocavamo a scacchi, a seconda dell’occasione.

Dopo la sua morte solo qualche cordiale saluto con la vedova, una signora giovane, figlia unica, gravata anche dall’assistenza ai genitori anziani. Mia moglie tentò piú volte di invitarla per un te, ma senza successo.

Lo scorso luglio è morta sua madre e lei, anche preoccupata per le condizioni del padre, è caduta in uno stato depressivo e nel circolo vizioso “casa – lavoro – padre – casa” chiudendosi a riccio in una sorta di difesa dal resto del mondo.

L’altra sera con nostra sorpresa ci ha telefonato e ha chiesto di mia moglie. Si sono parlate un po’ e mia moglie, dopo averle porto le condoglianze, l’ha invita sentirsi libera di richiamare quando vuole e a salire da noi. Lo farà? Forse.

Racconto questo episodio per significare come in una città si possa essere così lontani pur abitando vicini, parafrasando il titolo della “Solitudine dei numeri primi” mentre in paese i rapporti sono più immediati.

Mia suocera, abitando sulla strada, chiudeva la porta solo di notte. Durante il giorno c’era chi entrava a salutarla senza troppi formalismi o chi, aperta la porta, le mandava un saluto anche senza entrare: “Ciao Maria!”, tutti la chiamano così anche se il suo nome era un altro.

Poi abbiamo “inventato” la telefonata di avviso, la scusa del parcheggio, scordando che le visite più gradite sono proprio quelle senza preavviso, con la casa così come la viviamo e non tirata a lustro. Soffermandoci solo qualche minuto se gli ospiti hanno da fare ma dopo aver fatto sentire, non notare, la nostra presenza, proprio come con chi è fisicamente lontano basta un “ciao, ti voglio bene!” come canta Steve Wonder in “I Just called to Say I Love you”.

Pensiamoci.