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ULISSSE NON AVEVA IL PASSAPORTO

13 Gen

Come molti di coloro che fuggono e sbarcano a Lampedusa, o altrove, e coloro che non ce l’hanno fatta.

Si potrà dire che l’Odissea è un poema, ma in questo testo troviamo tutta la pìetas verso lo straniero, che, sbattuto dai flutti, si ritrova sporco, affamato e stanco sulla spiaggia di un’isola di cui neanche conosce il nome, e incontra una persona, in questo caso una donna, che lo soccorre senza fargli troppe domande e senza chiedergli il passaporto, ma pronta ad aiutarlo.

Molto attuale, non trovate?

(Il testo è lungo, l’essenziale è nelle enfasi)

Omero, Odissea, Libro VI, 212 – 437 enfasi mie.

[…]

Regina, odi i miei voti. Ah degg’io dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle dive che in Olimpo han seggio,
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l’immortal Dïana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s’allarga e brilla
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe.
Ma felice su tutti oltra ogni detto,
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D’illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s’offerse unqua nel volto
O di femmina, o d’uomo, alle mie ciglia:
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì che un giorno in Delo,
Presso l’ara d’Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi seguìa gente armata in quel viaggio
Che in danno rïuscir doveami al fine.
E com’io, fìssi nella palma gli occhi
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello;
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benché m’opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito dell’Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.
Scampai dall’onda ier soltanto, e un nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred’io gli eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m’addita; e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,
Si compiaccian largir: consorte e figli,
E un sol volere in due, però ch’io vita,
Non so più invidïabile, che dove
La propria casa con un’alma sola
Veggonsi governar marito e donna.
Duol grande i tristi m’hanno, e gioia i buoni:
Ma quei ch’esultan più, sono i due sposi”.

O forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato e dappoco”, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.
“L’Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men che al buon felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte
La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste o d’altro,
Che ai supplici si debba ed ai meschini,
Non patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti
Degli abitanti. È de’ Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell’impero”.

Tal favellò Nausica, e alle compagne:
Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perché v’apparse un uomo?
Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti
Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.
Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
Solitari viviam, viviam divisi
Da tutto l’altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.
Su via, di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete, e pria d’un bagno
Colà nel fiume, ove non puote il vento”.

Le compagne ristêro, ed a vicenda
Si rincorâro, e, come avea d’Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa
Nell’ampolla dell’ôr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimîro. Ma l’eroe: “Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave,
Finché io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m’unga
Dell’oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro;
Ché tra voi starmi non ardisco ignudo”.

Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl’incrostò le larghe
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s’astergea. Ma come tutto
Si fu lavato ed unto, e di que’ panni
Vestito, ch’ebbe da Nausica in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior d’aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de’ capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell’arte
Nulla celaro Pallade o Vulcano,
Sparge all’argento il liquid’oro intorno,
Sì che all’ultimo suo giunge con l’opra:
Tale ad Ulisse l’Atenèa Minerva
Gli omeri e il capo di decoro asperse;
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato e di beltade.

La donzella stordiva; ed all’ancelle
Dal crin ricciuto disse: “Un mio pensiero
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli, d’uom vile e abbietto
Vista m’avea da prima, ed or simìle
Sembrami a un dio che su l’Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i numi a sposo
Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda”.

Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo e bevanda
All’ospite imbandîro, e il paziente
Divino Ulisse con bramose fauci
L’uno e l’altra prendea, qual chi gran tempo
Bramò i ristori della mensa indarno.

Qui l’occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.
Poi così Ulisse confortava: “Sorgi
Stranier, se alla cittade ir ti talenta
E il mio padre veder, nel cui palagio
S’accoglieran della Feacia i capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,
Cotal modo terrai. Finché moviamo
De’ buoi tra le fatiche e de’ coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D’angusta foce, un quinci e l’altro quindi,
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.
Tra un porto e l’altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo
L’antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi,
Gomene e vele, a racconciar s’intende,
E i remi a ripulir: ché de’ Feaci
Non lusingano il core archi e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s’abbattesse a noi
Della feccia più vil: “Chi è”, non dica,
“Quel forestiero che Nausica siegue,
Bello d’aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, e le comparve un nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D’uom d’altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l’ambìano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto”.
Così dirìano; e crudelmente offesa
Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chïunque osasse,
De’ genitori non contenti in faccia,
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a’ miei detti bada; e leggermente
Ritorno e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi ed a Minerva sacro
Ci s’offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d’uomo, il bel podere
Giace del padre, e l’orto suo verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t’inurba, e cerca
Il palagio del re. Del re il palagio
Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino
Vi ti potrìa condur; che de’ Feaci
Non sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche; e presso
S’alza del padre il trono, in ch’ei, qual dio,
S’adagia, e della vite il nèttar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
De la madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natìe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno.
Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto”.

Detto così, della lucente sferza
Diè sulle groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciâro il fiume addietro.

[…]

FARE RETE NON È USARE I SOCIAL MEDIA

1 Set

Scrivevo due anni fa non per pignoleria ma per usare le parole, italiane o di altre lingue, senza cambiare il loro significato.

COMPRENDERE L’ALTRO FA VIVERE MEGLIO

8 Lug

Fate caso a come si muovono veloci un branco di pesci o uno stormo di uccelli, senza che mai i componenti sbattano l’uno contro l’altro, come le Frecce Tricolori?

A differenza di queste che riescono a farlo con l’allenamento, quelli sono guidati da ultrasuoni. Meraviglia della natura che mi ha sempre affascinato.

Così è anche per le gocce d’acqua (non vale per i fiocchi di neve perché sono troppo leggeri). Quando piove cadono tutte assieme senza mai incontrarsi e se arriva una raffica di vento ne seguono tutte la stessa direzione, Però, se le osserviamo su una finestra o sullo cruscotto di un’automobile, perdono velocità e alcune si fondono l’una nell’altra.

Questo è il concetto di empatia dal termine greco εμπαθεία composto da en dentro e pathos sofferenza, ma anche sentimento, che nelle scienze umane corrisponde all’impegno di comprendere l’altro. Un impegno che non è simpatia, che proviamo verso le persone con le quali abbiamo qualche affinità.

L’empatia è un sentimento sociale, che ci aiuta a comprendere l’altro, anche rispettandone la diversità e la distanza, senza giudicarlo e continuando a dargli del lei, che però ci aiuta a vivere meglio. Forse anche noi, come le gocce d’acqua, dovremmo pensare di perdere un po’ della velocità della vita di tutti i giorni, perché la conoscenza si ha solo con l’incontro.

A proposito di diversità e distanza, in questi giorni molti di noi dimostrano empatia, pur non potendo far nulla in concreto, interessandosi al dramma dei ragazzi nella grotta in Thailandia.

(dedicato a una twitteramica di Milano)

ULISSE NON AVEVA IL PASSAPORTO

11 Giu

Come molti di coloro che fuggono e sbarcano a Lampedusa, o altrove, e coloro che non ce l’hanno fatta.

:-/

Si potrà dire che l’Odissea è un poema, ma in questo testo troviamo tutta la pìetas verso lo straniero, che, sbattuto dai flutti, si ritrova sporco, affamato e stanco sulla spiaggia di un’isola di cui neanche conosce il nome, e incontra una persona, in questo caso una donna, che lo soccorre senza fargli troppe domande e senza chiedergli il passaporto, ma pronta ad aiutarlo.

Molto attuale, non trovate?

(Il testo è lungo, l’essenziale è nelle enfasi)

Omero, Odissea, Libro VI, 212 – 437 enfasi mie.

[…]

“Regina, odi i miei voti. Ah degg’io dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle dive che in Olimpo han seggio,
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l’immortal Dïana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s’allarga e brilla
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe.
Ma felice su tutti oltra ogni detto,
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D’illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s’offerse unqua nel volto
O di femmina, o d’uomo, alle mie ciglia:
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì che un giorno in Delo,
Presso l’ara d’Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi seguìa gente armata in quel viaggio
Che in danno rïuscir doveami al fine.
E com’io, fìssi nella palma gli occhi
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello;
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benché m’opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito dell’Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.
Scampai dall’onda ier soltanto, e un nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred’io gli eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m’addita; e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,
Si compiaccian largir: consorte e figli,
E un sol volere in due, però ch’io vita,
Non so più invidïabile, che dove
La propria casa con un’alma sola
Veggonsi governar marito e donna.
Duol grande i tristi m’hanno, e gioia i buoni:
Ma quei ch’esultan più, sono i due sposi”.

“O forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato e dappoco”, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.
“L’Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men che al buon felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte
La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste o d’altro,
Che ai supplici si debba ed ai meschini,
Non patirai disagio. Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti
Degli abitanti. È de’ Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell’impero”.

Tal favellò Nausica, e alle compagne:
“Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perché v’apparse un uomo?
Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti
Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.
Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
Solitari viviam, viviam divisi
Da tutto l’altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.
Su via, di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete, e pria d’un bagno
Colà nel fiume, ove non puote il vento”.

Le compagne ristêro, ed a vicenda
Si rincorâro, e, come avea d’Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa
Nell’ampolla dell’ôr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimîro. Ma l’eroe: “Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave,
Finché io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m’unga
Dell’oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro;
Ché tra voi starmi non ardisco ignudo”.

Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl’incrostò le larghe
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s’astergea. Ma come tutto
Si fu lavato ed unto, e di que’ panni
Vestito, ch’ebbe da Nausica in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior d’aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de’ capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell’arte
Nulla celaro Pallade o Vulcano,
Sparge all’argento il liquid’oro intorno,
Sì che all’ultimo suo giunge con l’opra:
Tale ad Ulisse l’Atenèa Minerva
Gli omeri e il capo di decoro asperse;
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato e di beltade.

La donzella stordiva; ed all’ancelle
Dal crin ricciuto disse: “Un mio pensiero
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli, d’uom vile e abbietto
Vista m’avea da prima, ed or simìle
Sembrami a un dio che su l’Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i numi a sposo
Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda”.

Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo e bevanda
All’ospite imbandîro, e il paziente
Divino Ulisse con bramose fauci
L’uno e l’altra prendea, qual chi gran tempo
Bramò i ristori della mensa indarno.

Qui l’occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.
Poi così Ulisse confortava: “Sorgi
Stranier, se alla cittade ir ti talenta
E il mio padre veder, nel cui palagio
S’accoglieran della Feacia i capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,
Cotal modo terrai. Finché moviamo
De’ buoi tra le fatiche e de’ coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D’angusta foce, un quinci e l’altro quindi,
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.
Tra un porto e l’altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo
L’antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi,
Gomene e vele, a racconciar s’intende,
E i remi a ripulir: ché de’ Feaci
Non lusingano il core archi e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s’abbattesse a noi
Della feccia più vil: “Chi è”, non dica,
“Quel forestiero che Nausica siegue,
Bello d’aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, e le comparve un nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D’uom d’altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l’ambìano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto”.
Così dirìano; e crudelmente offesa
Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chïunque osasse,
De’ genitori non contenti in faccia,
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a’ miei detti bada; e leggermente
Ritorno e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi ed a Minerva sacro
Ci s’offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d’uomo, il bel podere
Giace del padre, e l’orto suo verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t’inurba, e cerca
Il palagio del re. Del re il palagio
Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino
Vi ti potrìa condur; che de’ Feaci
Non sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche; e presso
S’alza del padre il trono, in ch’ei, qual dio,
S’adagia, e della vite il nèttar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
De la madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natìe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno.
Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto”.

Detto così, della lucente sferza
Diè sulle groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciâro il fiume addietro.

[…]

DIALOGO

26 Apr

dïàlogo s. m. [dal lat. dialŏgus, gr. διάλογος, der. di διαλέγομαι «conversare, discorrere»] (pl. –ghi).

Se non siamo capaci di ascoltare usiamo un’altra parola.

ULISSE NON AVEVA IL PASSAPORTO

1 Feb

Come molti di coloro che fuggono e sbarcano a Lampedusa, o altrove, o coloro che non ce l’hanno fatta. :-/

Si potrà dire che l’Odissea è un poema, ma in questo testo troviamo tutta la pìetas verso lo straniero, che, sbattuto dai flutti, si ritrova sporco, affamato e stanco sulla spiaggia di un’isola di cui neanche conosce il nome, e incontra una persona, in questo caso una donna, che lo soccorre senza fargli troppe domane e senza chiedergli il passaporto, ma pronta ad aiutarlo.

Molto attuale, non trovate?

(Il testo è lungo, l’essenziale è nelle enfasi)

Omero, Odissea, Libro VI, 212 – 437 enfasi mie.

[…]

“Regina, odi i miei voti. Ah degg’io dea
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna
Sei delle dive che in Olimpo han seggio,
Alla beltade, agli atti, al maestoso
Nobile aspetto, io l’immortal Dïana,
Del gran Giove la figlia, in te ravviso.
E se tra quelli, che la terra nutre,
Le luci apristi al dì, tre volte il padre
Beato, e tre la madre veneranda,
E beati tre volte i tuoi germani,
Cui di conforto almo s’allarga e brilla
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza
Veggiono entrar sì grazïoso germe.
Ma felice su tutti oltra ogni detto,
Chi potrà un dì nelle sue case addurti
D’illustri carca nuzïali doni.
Nulla di tal s’offerse unqua nel volto
O di femmina, o d’uomo, alle mie ciglia:
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi.
Tal quello era bensì che un giorno in Delo,
Presso l’ara d’Apollo, ergersi io vidi
Nuovo rampollo di mirabil palma:
Ché a Delo ancora io mi condussi, e molta
Mi seguìa gente armata in quel viaggio
Che in danno rïuscir doveami al fine.
E com’io, fìssi nella palma gli occhi
Colmo restai di meraviglia, quando
Di terra mai non surse arbor sì bello;
Così te, donna, stupefatto ammiro,
E le ginocchia tue, benché m’opprima
Dolore immenso, io pur toccar non oso.
Me uscito dell’Ogigia isola dieci
Portava giorni e dieci il vento e il fiotto.
Scampai dall’onda ier soltanto, e un nume
Su queste piagge, a trovar forse nuovi
Disastri, mi gittò: poscia che stanchi
Di travagliarmi non cred’io gli eterni.
Pietà di me, Regina, a cui la prima
Dopo tante sventure innanzi io vegno,
Io, che degli abitanti, o la campagna
Tengali, o la città, nessun conobbi.
La cittade m’addita; e un panno dammi,
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni
Qua recasti con te, di panni invoglio.
E a te gli dèi, quanto il tuo cor desìa,
Si compiaccian largir: consorte e figli,
E un sol volere in due, però ch’io vita,

Non so più invidïabile, che dove
La propria casa con un’alma sola
Veggonsi governar marito e donna.
Duol grande i tristi m’hanno, e gioia i buoni:
Ma quei ch’esultan più, sono i due sposi”.

“O forestier, tu non mi sembri punto
Dissennato e dappoco”, allor rispose
La verginetta dalle bianche braccia.

“L’Olimpio Giove, che sovente al tristo
Non men che al buon felicità dispensa,
Mandò a te la sciagura, e tu da forte
La sosterrai. Ma, poiché ai nostri lidi
Ti convenne approdar, di veste o d’altro,
Che ai supplici si debba ed ai meschini,
Non patirai disagio.
Io la cittade
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti
Degli abitanti. È de’ Feaci albergo
Questa fortunata isola; ed io nacqui
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma
Del poter si restringe, e dell’impero”.

Tal favellò Nausica, e alle compagne:
“Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
Fuggite voi, perché v’apparse un uomo?

Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti
Guerra portar: tanto agli dèi siam cari.
Oltre che in sen dell’ondeggiante mare
Solitari viviam, viviam divisi
Da tutto l’altro della stirpe umana.
Un misero è costui, che a queste piagge
Capitò errando, e a cui pensare or vuolsi.
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi
Vengon da Giove tutti, e non v’ha dono
Picciolo sì, che lor non torni caro.

Su via, di cibo e di bevanda il nuovo
Ospite soccorrete, e pria d’un bagno
Colà nel fiume, ove non puote il vento”.

Le compagne ristêro, ed a vicenda
Si rincorâro, e, come avea d’Alcinoo
La figlia ingiunto, sotto un bel frascato
Menâro Ulisse, e accanto a lui le vesti
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa
Nell’ampolla dell’ôr liquida oliva:
Quindi ad entrar col piè nella corrente
Lo inanimîro. Ma l’eroe: “Fanciulle,
Appartarvi da me non vi sia grave,
Finché io questa salsuggine marina
Mi terga io stesso, e del salubre m’unga
Dell’oliva licor, conforto ignoto
Da lungo tempo alle mie membra. Io certo
Non laverommi nel cospetto vostro;
Ché tra voi starmi non ardisco ignudo”.

Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo
Nettunio sal, che gl’incrostò le larghe
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume,
E la bruttura del feroce mare
Dal capo s’astergea. Ma come tutto
Si fu lavato ed unto, e di que’ panni
Vestito, ch’ebbe da Nausica in dono,
Lui Minerva, la prole alma di Giove,
Maggior d’aspetto, e più ricolmo in faccia
Rese, e più fresco, e de’ capei lucenti,
Che di giacinto a fior parean sembianti,
Su gli omeri cader gli feo le anella.
E qual se dotto mastro, a cui dell’arte
Nulla celaro Pallade o Vulcano,
Sparge all’argento il liquid’oro intorno,
Sì che all’ultimo suo giunge con l’opra:
Tale ad Ulisse l’Atenèa Minerva
Gli omeri e il capo di decoro asperse;
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte,
Su la riva sedea del mar canuto,
Di grazia irradïato e di beltade.

La donzella stordiva; ed all’ancelle
Dal crin ricciuto disse: “Un mio pensiero
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno
Che le nostre afferrò sponde beate,
Non erano a costui tutti del cielo
Gli abitatori: egli, d’uom vile e abbietto
Vista m’avea da prima, ed or simìle
Sembrami a un dio che su l’Olimpo siede.
Oh colui fosse tal, che i numi a sposo
Mi destinâro! Ed oh piacesse a lui
Fermar qui la sua stanza! Orsù, di cibo
Sovvenitelo, amiche, e di bevanda”.

Quelle ascoltaro con orecchio teso,
E il comando seguîr: cibo e bevanda
All’ospite imbandîro, e il paziente

Divino Ulisse con bramose fauci
L’uno e l’altra prendea, qual chi gran tempo
Bramò i ristori della mensa indarno.

Qui l’occhinera vergine novello
Partito immaginò. Sul vago carro
Le ripiegate vestimenta pose,
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse.
Poi così Ulisse confortava: “Sorgi
Stranier, se alla cittade ir ti talenta
E il mio padre veder, nel cui palagio
S’accoglieran della Feacia i capi.
Ma, quando folle non mi sembri punto,
Cotal modo terrai. Finché moviamo
De’ buoi tra le fatiche e de’ coloni,
Tu con le ancelle dopo il carro vieni
Non lentamente: io ti sarò per guida.
Come da presso la cittade avremo,
Divideremci. È la città da un alto
Muro cerchiata, e due bei porti vanta
D’angusta foce, un quinci e l’altro quindi,
Su le cui rive tutti in lunga fila
Posan dal mare i naviganti legni.
Tra un porto e l’altro si distende il foro
Di pietre quadre, e da vicina cava
Condotte, lastricato; e al fôro in mezzo
L’antico tempio di Nettun si leva.
Colà gli arnesi delle negre navi,
Gomene e vele, a racconciar s’intende,
E i remi a ripulir: ché de’ Feaci
Non lusingano il core archi e faretre,
Ma veleggianti e remiganti navi,
Su cui passano allegri il mar spumante.
Di cotestoro a mio potere io sfuggo
Le voci amare, non alcun da tergo
Mi morda, e tal, che s’abbattesse a noi
Della feccia più vil: “Chi è”, non dica,
“Quel forestiero che Nausica siegue,
Bello d’aspetto e grande? Ove trovollo?
Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli,
Che da noi parte il mar, ramingo giunse,
Ed ella il ricevé, che uscìa di nave:
O da lunghi chiamato ardenti voti
Scese di cielo, e le comparve un nume,
Che seco riterrà tutti i suoi giorni.
Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia
D’uom d’altronde venuto, e a lui donossi,
Dappoi che i molti, che l’ambìano, illustri
Feaci tanto avanti ebbe in dispetto”.
Così dirìano; e crudelmente offesa
Ne sarìa la mia fama. Io stessa sdegno
Concepirei contra chïunque osasse,
De’ genitori non contenti in faccia,
Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto
Fosse delle sue nozze il dì festivo.
Dunque a’ miei detti bada; e leggermente
Ritorno e scorta impetrerai dal padre.
Folto di pioppi ed a Minerva sacro
Ci s’offrirà per via bosco fronzuto,
Cui viva fonte bagna, e molli prati
Cingono: ivi non più dalla cittade
Lontan, che un gridar d’uomo, il bel podere
Giace del padre, e l’orto suo verdeggia.
Ivi, tanto che a quella ed al paterno
Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta
Mi crederai, tu pur t’inurba, e cerca
Il palagio del re. Del re il palagio
Gli occhi tosto a sé chiama, e un fanciullino
Vi ti potrìa condur; che de’ Feaci
Non sorge ostello che il paterno adegui.
Entrato nel cortil, rapidamente
Sino alla madre mia per le superbe
Camere varca. Ella davanti al foco,
Che del suo lume le colora il volto,
Siede, e, poggiata a una colonna, torce,
Degli sguardi stupor, purpuree lane.
Siedonle a tergo le fantesche; e presso
S’alza del padre il trono, in ch’ei, qual dio,
S’adagia, e della vite il nèttar bee.
Declina il trono, e stendi alle ginocchia
De la madre le braccia; onde tra poco
Del tuo ritorno alle natìe contrade,
Per remote che sien, ti spunti il giorno.
Stùdiati entrarle tanto e quanto in core;
E di non riveder le patrie sponde,
Gli alberghi avìti, e degli amici il volto,
Bandisci dalla mente ogni sospetto”.

Detto così, della lucente sferza
Diè sulle groppe ai vigorosi muli,
Che pronti si lasciâro il fiume addietro.

[…]

IL NUMERO GIUSTO

30 Nov

«Un paio di scarpe è necessario a tutti, ma non è detto che lo stesso paio possa essere calzato da ogni piede, ne serve uno per ogni misura» Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese

Se l’aiuto non è mirato, è sbagliato di Mario Gilli su Riforma.

CORATO

12 Lug

CORATO

Subito dopo scontro tra i treni sulla tratta Bari – Corato è emersa quell’Italia pulita, buona, solidale che, alla richiesta della donazione di sangue, si è vista chiedere di tornare domattina perché l’Avis di Corato non riesce ricevere tutti i donatori.

Tutto questo in un momento in cui l’Italia è traballante su molti altri fronti.

Più volte ho scritto che le vittime di un incidente o di un attentato sono tutte uguali, senza distinzione di genere, etnia e convinzioni politiche e religiose.

Il nostro trullo dista da Bari 110 chilometri circa e da Corato 175, e sarebe stato altamente improbabile che io e la mia famiglia fossimo stati su uno dei due treni.

Mi ha commosso, però, il messaggio privato ricevuto da una signora con cui mi seguo su Twitter, che mi ha domandato se noi fossimo stati coinvolti.

“Dimmi che stai bene tu e tutti i tuoi cari. Disastro ferroviario in Puglia  lacrima

A dimostrazione che i rapporti costruiti nei Social Media, se basati su interessi comuni e il reciproco rispetto possono trasformarsi in amicizie che sono sì telematiche ma allo stesso tempo altrettanto reali.

Grazie Stefania!

DIFENDERE NON È CONDIVIDERE

15 Giu

Difendere non è necessariamente condividere. Vanno difesi i diritti di qualunque persona anche senza  condividerne gli ideali o le aspettative.

Per questo motivo, tra gli altri, ritengo siano sbagliati i vari “Io sono” che hanno visto l’apice a Parigi con il Je suis Charlie.

Ich bin ein Berliner (Io sono un berlinese) è un’espressione memorabile del presidente John F. Kennedy pronunciata in un particolare momento storico. Già il “Siamo tutti americani” detta il 12 settembre 2001 assumeva un significato molto diverso.

PERSONE IN FUGA

18 Mar

Queste sono ormai delle immagini simbolo di persone in fuga, Enea, col padre Anchise e il figlio Ascanio da Troia, Kim Phuc, di nove anni da Trang Bang, Vietnam e un anonimo da Berlino.

Queste sono ormai delle immagini simbolo di persone in fuga, Enea, col padre Anchise e il figlio Ascanio da Troia, Kim Phuc, di nove anni da Trang Bang, Vietnam e un anonimo da Berlino.\n\n\n\nA memoria per noi di quanti stanno fuggendo non svestiti come questi ma in cerca di una nuova identità dopo aver lasciato controvoglia una terra che amavano.\nCome si fa a lasciarli soli?!

Enea

Vietnam

Berlino

A memoria per noi di quanti stanno fuggendo non svestiti come questi ma in cerca di una nuova identità dopo aver lasciato controvoglia una terra che amavano.

Come si fa a lasciarli soli?!