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LA SAGGEZZA DEL MANZONI

9 Mar

In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro.

Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.

Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, capitolo XXXI, enfasi mia

ELOGIO DELLA LENTEZZA

7 Gen

teverde

Esiste una profonda differenza tra il fumo di sigaretta e quello della pipa, scrivere con una tastiera o con una stilografica e bere un caffè o un te.

Il fumo di sigaretta (al di là dei danni da fumo) è una pausa breve, spesso inconscia mentre il fumo di pipa esige tutto un rituale, la pulizia, il riempimento, l’accensione e, dopo, il gusto di tenere l’attrezzo in bocca, spesso per “darsi un tono”.

Ormai siamo abituati a scrivere con la tastiera, nei vari strumenti, smartphone, tablet e pc, spesso per una presunta fretta e soprattutto per l’imporsi della posta elettronica sulla incerta posta cartacea. Eppure, una lettera d’amore e un biglietto di ringraziamento esigono ancora una stesura in calligrafia che per chi la sa apprezzare ha un fascino tutto suo, come i lavori fatti a tombolo. Ultimamente da più parti scientifiche la scrittura a mano si sta rivalutando proprio perché aiuta a pensare e a comprendere meglio ciò che si sta scrivendo con la ricerca delle parole migliori tra i vari sinonimi con le loro sfaccettature differenti. Bisognerebbe che la scuola primaria insegnasse anche l’eleganza della calligrafia, forse con metodi più moderni dell’”asta e filetto”.

Un giorno venne in transito a casa nostra un amico di Liverpool che stava recandosi in Romania. Dopo cena si offrì di preparare il te, lo lasciammo fare perché chi meglio di lui?

Si sa che per gli inglesi il te è una cosa seria, più del caffè per i napoletani. Non a caso Cesare non riuscì a conquistare l’Inghilterra, come è ben documentato da Asterix nel libro storico “Asterix in Britannia” perché mentre tutti gli altri eserciti all’epoca posavano le armi per motivi pratici al tramonto, gli inglesi, cascasse il mondo, si fermavano alle 17:00 per il rito della degustazione della loro “acqua calda”.

Mentre il caffè è bevuto in fretta si chiama espresso in ricordo di quando i treni arrivavano puntuali, ma questa è un’altra storia, il te è servito nella teiera proprio perché se ne presuppone una degustazione lenta, senza fretta.

Poi succede che vai al reparto spezie del supermercato e scopri che hanno messo in vendita il te in cialde. Una passata di trenta secondi nella macchina del caffè e il gioco è fatto.

L’Unione Europea, che mette in discussione la lunghezza dei fagiolini o il calibro dei ceci, non ha nulla da dire al proposito? Poi non lamentiamoci per l’imminente Brexit!

L’ABITO FA LA MONACA

31 Mar

Ieri, poco prima di mezzanotte, si è esibita a Ballando con le stelle suor Cristina Scuccia, la vincitrice di The voice 2014, suscitando una montagna di critiche e snaturando il senso della manifestazione.

Già in sala prove era sotto la supervisione da una superiora, nella esibizione si è presentata con una crew formata da tre ballerini, tra cui Stefano Oradei, che ricopre anche il ruolo di coreografo. “Sono sposata col Signore”, ha spiegato Suor Cristina che per vincolo non può ballare con un altro uomo. Alla domanda diretta di Ivan Zazzeroni se nelle puntate successive si sarebbe presentata in tonaca ha risposto affermativamente perché l’abito è segno della sua vocazione.

Al di là del bizzarro modo di esprimersi delle suore che pretendono di essere sposate con il Signore, facendo di lui un poligamo sia pure sul piano spirituale, non è certo una divisa a identificare una persona. Al contrario, come purtroppo sappiamo della divisa, non solo religiosa, molti hanno approfittato per scopi illeciti, per quel senso di autorità che noi in dialetto chiamiamo il “complesso del cappello con l’unghia”, la visiera, da un comandante in capo fino al portiere del condominio.

Suor Cristina si è presentata con l’istruttore uomo e con due ragazze in modo da non avere mai, durante l’esibizione, un contatto fisico con lui. Sarà da vedere come farà quando una delle prove riguarderà balli più impegnativi come il tango, che non può prescindere dal contatto dei corpi.

Come ha scritto l’apostolo Paolo, in un testo riconosciuto anche dalla Chiesa cattolica (1a Corinzi 6), «Tutto mi è lecito! ». Ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Ma io non mi lascerò dominare da nulla». «Tutto mi è lecito!». Ma io non mi lascerò dominare da nulla».

Così una suora, per la sua scelta di vita, dovrebbe essere sufficientemente saggia da evitare la partecipazione a un programma come Ballando con le stelle in modo da non mettere in difficoltà se stessa, lo spettacolo e il pubblico.

Quanto all’abito e al velo, che spesso richiamiamo come segno di sottomissione delle donne mussulmane, tempo fa scrissi questo post, e feci notare come la suora che ballava in un abito giallo alla fine si rivestì e, per sottomissione all’arcivescovo indossò il velo, ma anche come le suore sarebbero più comunicative, soprattutto con i bambini, senza quel segno di sottomissione in testa specialmente nella loro divisa nera.

In ultimo, poiché la Regione Friuli Venezia Giulia ha ribadito di recente, inutilmente perché c’è già una legge dello Stato, l’obbligo di presentarsi negli uffici pubblici a volto scoperto, va anche aggiunto che le fotografie di identità debbono essere fatte a capo scoperto e, per quanto riguarda la patente di guida, anche senza occhiali.

Contraddizioni del mondo moderno?

CINQUE DONNE

9 Mar

Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abrahamo”. Così comincia la storia di Gesù secondo Matteo, che inizia da Abramo, capostipite degli ebrei. Una genealogia incompleta e simbolica, divisa in tre gruppi di quattordici persone.

In tutta questa lista di nomi di uomini – sono loro quelli che contano! – sono nominate cinque donne, Tamàr, Racàb, Ruth, la “vedova di Uria” e Maria di Nazareth. Donne sicuramente diverse tra di loro, per epoca e per destino, ma che lasciano un segno nella storia di Israele.

Sappiamo che quella biblica non è una storia solo di gente per bene. Pensiamo alla facilità con cui Esaù cedette la primogenitura, il racconto del fatto si conclude con la considerazione “Tanto poco stimò Esaù la primogenitura”, o l’inganno con cui Giacobbe estorse la benedizione dal padre Isacco.

La prima donna, Tamar, era la moglie che Giuda, fratello di quel Giuseppe venduto per invidia a una carovana di egiziani, aveva preso per il primogenito Er, come leggiamo in Genesi 38. Dopo la morte di due dei tre figli, Giuda allontanò Tamar, che avrebbe avuto il diritto di sposare il più giovane in base alla legge del levirato, invitandola a tornare a casa di suo padre come vedova, per paura che anche anche il terzo figlio morisse. Che le donne portino sfortuna?!

Tamar, per rivendicare il suo diritto, un giorno in cui Giuda salì dalle sue parti, si finse prostituta per passare una notte con lui nel tentativo, riuscito, di rimanere incinta di lui. Giuda fece una pessima figura, ma da quell’incontro nacquero due gemelli, il primo dei quali fu chiamato Perez, che ritroviamo in Matteo 1 con il nome di Farez.

La seconda donna della genealogia è Racab. Di lei leggiamo, in Giosuè 2, che nascose gli esploratori mandati a Gerico da Giosuè. Potremmo avere molto da dire su questo tradimento verso il re di Gerico, che lei compì per mettere in salvo la sua famiglia, ma la Scrittura ci dice che lo fece perché aveva riconosciuto la sovranità del Signore.

Di Ruth potremmo anche non parlare, tanto è famosa la sua promessa, “Ma Ruth replicò: “Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te, perché dove andrai tu, andrò anch’io, e dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora, se altra cosa, che non sia la morte, mi separerà da te”. Questa promessa spesso è usata nei matrimoni, in realtà è fatta, cosa non da poco, da una nuora a una suocera!

Tornate assieme al paese di Bet Lehem – che conosciamo meglio con il nome di Betlemme – Ruth comincia a lavorare come spigolatrice per Booz, un coltivatore del posto che scopriremo essere suo parente alla lontana. Questi la prende in ben volere perché ha udito parlare della sua fedeltà alla suocera, e finisce con lo sposarla.

È interessante notare che una storia da “cronaca rosa” come questa è stata inserita nel canone ebraico, così come è stato inserito il Cantico dei Cantici, che, prima di un’eventuale lettura in chiave spirituale, è una bella storia d’amore di insegnamento ai giovani.

Alla nascita del figlio di Booz e Ruth, le donne dissero a Noemi: “Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli”. Noemi prese il bambino, se lo pose in grembo e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: “È nato un figlio a Noemi!”. E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide.

La storia di Betsabea, che Matteo non chiama per nome, ma ricorda come “moglie di Uria”, è una storia triste fatta di meschinità e di abuso di potere, degna più degli imperatori romani (Svetonio, Vita dei cesari) che di un re di Israele.

Il re Davide, quello che da giovane fu scelto per la successione a Saul e che con un colpo netto di fionda uccise il gigante Golia, quello che ci ha lasciato gran parte dei centocinquanta salmi, fu artefice di un omicidio per riparare all’avventura di una notte, provocando la morte del marito di lei. 

Più avanti, messo di fronte all’evidenza del suo peccato dal profeta Nathan, se ne pentì, non però senza conseguenze.

L’ultima donna in ordine di tempo è Maria di Nazareth, di cui gli evangelici, per reazione a chi ne parla troppo, parlano poco.

Di lei sappiamo che era una tra le tante ragazze di Israele che speravano di dare alla luce il messia che doveva venire, per questo l’angelo Gabriele la chiama “favorita dalla grazia” e lei dice di se stessa “tutte le generazioni mi chiameranno beata”.  Tanto per chiarirci le idee gli ebrei di quel momento non avevano del messia l’idea che ci ha proposto Gesù, ma piuttosto una guida che li avesse liberati definitivamente dai Romani.

I vangeli di questa donna dicono poco. Dopo gli avvenimenti della nascita, ricordati da Matteo e da Luca, la incontriamo a Gerusalemme quando Gesù a dodici anni si mette a discutere con i dottori, alle nozze di Canan, un paio di volte assieme agli altri suoi figli a cercare Gesù, in ultimo sotto la croce e nel cenacolo alla discesa dello Spirito Santo. Di più non dice neanche l’apostolo Giovanni, cui era stata affidata se non materialmente, poiché aveva altri figli almeno spiritualmente da Gesù sulla croce e che ha scritto il suo vangelo negli anni novanta. Sarà dichiarata assunta in cielo appena nel 1951.

Ma quello che più ci interessa di lei è il suo sì incondizionato, che non va sottovalutato. Se da una parte è un sì di meraviglia e di gioia per essere stata scelta tra tutte le giovani donne d’Israele per dare alla luce il Messia, è anche un sì di completa disponibilità, “ecco la serva del Signore, si faccia di me come hai detto tu”.

Un sì che, dopo la dipartita dell’angelo, sul momento forse le sarà pesato per le conseguenze alle quali si esponeva. Maria era già fidanzata con Giuseppe, e il fidanzamento era un contratto prematrimoniale vincolante. Avrebbe dovuto chiedere il permesso a lui, non rispondere di getto. Tutte cose secondarie rispetto all’annuncio dell’angelo, ma che la mettevano fuori dalla norma.

Il comportamento di due di queste cinque donne non è proprio esemplare, Tamàr si spaccia per prostituta, Betsabea si concede a Davide tradendo il marito. Maria, come abbiamo appena visto, contravviene ad altre regole sociali. Quattro su cinque, inoltre, sono straniere.

L’insegnamento che possiamo ricavarne è che le norme quando ci sono vanno osservate, però con le dovute eccezioni.

AMOS

9 Feb

Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore stava sopra un muro tirato a piombo e con un filo a piombo in mano. Il Signore mi disse: “Che cosa vedi, Amos?”. Io risposi: “Un filo a piombo”. Il Signore mi disse: “Io pongo un filo a piombo in mezzo al mio popolo, Israele; non gli perdonerò più. Saranno demolite le alture d’Isacco e saranno ridotti in rovina i santuari d’Israele, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo”.
Amasia, sacerdote di Betel, mandò a dire a Geroboamo, re d’Israele: “Amos congiura contro di te, in mezzo alla casa d’Israele; il paese non può sopportare le sue parole, poiché così dice Amos: “Di spada morirà Geroboamo, e Israele sarà condotto in esilio lontano dalla sua terra””. Amasia disse ad Amos: “Vattene, veggente, ritrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno”. Amos rispose ad Amasia e disse:
“Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro.Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge.Il Signore mi disse: Va, profetizza al mio popolo Israele”.
Come rammenta anche Qohelet 3 “un tempo per tacere e un tempo per parlare” arriva il momento in cui bisogna alzare la voce e denunciare i malaffari, con garbo, legalmente, ma con decisione, anche se ci sarà chi vorrà mettere a tacere la verità volgendosi

BASTA UN ATTIMO

5 Feb

Eravamo giovani, sposati da poco, e Flavio figlio unico più giovane di noi quando litigava con i suoi genitori veniva a trovarci. Ci aveva eletto una sorta di famiglia-bis. I suoi genitori lo sapevano e ne erano contenti.

Un Natale sapevamo che sarebbe dovuto andare a Napoli ma lo incontrammo da amici comuni a Lecce, perché aveva messo gli occhi su una ragazza di lì. Gli chiesi se i suoi lo sapessero, mi disse di no, lo accompagnai a una cabina e lui candido disse a sua madre “Ciao mamma, sono a Lecce, con ardovig e Cos”, come avesse detto: “Butta la pasta che sto arrivando”.

Poi successe. Successe, che da figlio unico di genitori iperprotettivi come succede a molti, un sabato pomeriggio prese il ciclomotore del cugino, che non sapeva usare, non fece ritorno presso gli zii e lo ritrovarono il giorno dopo in un fosso.

Ricoverato al Traumatologico di Udine, quando andai a trovarlo era in un letto di quelli inclinati di 45°, ma si scusò perché non sarebbe potuto venire in campeggio con noi. “Sta come un cristo in croce”, pensai senza dirglielo “e pensa a scusarsi”.

Perse l’uso degli arti inferiori ma riuscì ad accettare il fatto e cominciò a fare dei progetti per il suo nuovo stato di vita.

Dagli amici di qua e di Lecce ricevette molte telefonate e lettere di sostegno e incoraggiamento.

Quaranta giorni dopo l’incidente ebbe un’emorragia interna e morì. All’orazione funebre, da credente, invitai a non pretendere di comprendere ma di accettare i disegni del Signore, che vanno oltre la nostra condizione umana.

Scrivo questi ricordi che non ho potuto evitare pensando a Manuel Bortuzzo, che non camminerà più la cui vita, prima della carriera sportiva, è stata spezzata da un colpo di pistola che gli è arrivato per caso.

Mi fermo qui, per me è facile perché dopo questo post mi alzerò e andrò a sedermi in poltrona, cosa che Manuel non potrà più fare.

Per quel che vale da uno sconosciuto, ti lascio un forte abbraccio, Manuel!

DI PANE, CRISI E NUOVE POVERTÀ

17 Nov

Noi di città conosciamo poco il pane, al massimo, se siamo per strada di mattina presto prima del caos urbano, possiamo sentirne l’odore uscire dai forni a serranda ancora abbassata, senza pensare a quanti lavorano per farcelo trovare bello caldo e fragrante. Fare il pane, nella civiltà contadina, era una cosa comune, come rassettare la casa e cucinare. Lo si faceva una volta alla settimana perché a differenza di oggi il pane durava più giorni.

Dalla scelta della farina, e ancor prima dalla raccolta del grano, fino alla cottura in forno sono tutti passaggi pregni di significati che pian piano si sono persi.

Molti ricorderanno i versi della Spigolatrice di Sarpi di Luigi Mercantini, “Me ne andavo una mattina a spigolare…” per averli studiati a scuola. Gli insegnanti ponevano l’enfasi su quei trecento che erano giovani e sono morti senza preoccuparsi troppo della donna.

Spigolare è ciò che facevano i poveri anche in Italia fino a settanta/ottanta anni or sono andando nei campi a raccogliere le spighe rimaste a terra dopo la trebbiatura. Era un atto di umiltà perché bisognava chiedere e ottenere il permesso per fare una cosa semplice come raccogliere degli scarti. Gli spigolatori del duemila sono coloro che vanno a recuperare gli ortaggi nei cassonetti vicini ai supermercati e non solo.

Una spigolatrice famosa è Ruth, originaria di Betlemme, nella linea genealogica di Gesù, la cui storia possiamo leggere nel libro della Bibbia che porta il suo nome e in cui viene raccontato come un suo lontano parente al quale era piaciuta, la favorì in questo lavoro ordinando ai suoi servi di lasciare delle spighe in abbondanza quando passava lei a raccoglierle.

La sua storia è anche una smentita del luogo comune che vede suocera e nuora in perenne antagonismo, nella famosa promessa “Ma Ruth rispose: “Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch`io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio” (Ruth 1.16) (spesso impropriamente usata nei riti di matrimonio).

È forse in ricordo di Ruth, anche se la motivazione si era persa, che settanta, ottanta anni or sono nel primo anno di matrimonio in Salento le nuore usavano portare in dono alle suocere la vaccaredda

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 in segno sia di affetto sia di riconoscimento della sua autorità. Cose di altri tempi, si dirà oggi. La vaccaredda si portava anche al genitore rimasto vedovo, e si intendeva con questo gesto ripagare la mamma o il papà del latte che avevano donato alla figlia quando era piccola, durante l’allattamento. Scopriamo così l’arcano di questa forma strana che ricorda di mammelle e il gesto di riconoscenza verso i genitori che perdurava fino alla loro morte.

È famoso anche il pane di Altamura (non “tipo Altamura 🙂 )

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che possiede questa forma, come una mezzaluna ripiegata su se stessa, ma la dimensione della pezzatura, ovviamente, è molto più grande di quella pagnotta odorosa e fragrante, che le persone dolci di cuore donavano a chi se la passava male. Usanza che, sulla scia del caffè sospeso napoletano, si sta riproponendo proprio in questo periodo di crisi.

Nel fare il pane non potevano mancare i bambini, per i quali anche per tenerli fermi, a mo’ di regalo veniva confezionato lu pupo, a forma di babola, e sulla cui confezione e cottura i destinatari prestavano la massima attenzione.

Quella descritta è la tradizione salentina, con le sue varianti locali, ma il pane è da sempre presente nella nostra cultura, religiosa e laica.

Portare il pane a casa” è forse la locuzione più significativa, assieme a “non avere un tozzo di pane”.

Di pane parla Dante abituato da buon fiorentino al pane insipido, “Tu proverai, sí come sa di sale lo pane altrui/e come duro cale/ lo scender e ‘l salir per l’altrui scale” (Paradiso, XVII, 58) prefigurando il suo esilio.

Ignazio Silone in Vino e pane atira la nostra attenzione sul fatto che la maturazione del grano, elemento base il pane, dura nove mesi come la gestazione umana e Miriam Mafai in Pane nero ci racconta la ristrettezza della vita durante quella Seconda Guerra Mondiale che sarebbe dovuta concludersi in una decina di giorni.

Il pane non si getta, per rispetto a chi non ne ha, anche se c’è chi ha messo in giro la voce che i forni  buttano l’invenduto mentre se non tutti molti lo danno gratuitamente alle mense dei poveri. Si ricicla, una volta in campagna come mangime agli animali, ora nella cosiddetta “cucina povera”. Il pane a tavola non si taglia, si spezza, in ricordo dell’ultima cena.

Di pane, dei diversi tipi di pane, si dovrebbe parlare anche nei menù, così come si fa con i diversi tipi di pasta ma soprattutto con il vino.

Quanta tradizione, quanti significati in un alimento comune che diamo per scontato. Cominciando a pensarci, prima di andare a comperarlo, forse lo apprezzeremo di più.

Questo post nasce da una piacevole “ragionata”, come si dice al Sud, sulle tradizioni dei “tempi di prima”. La memoria non va mai cancellata, perché fa parte della nostra vita.

DATI CATASTALI, ABUSI EDILIZI E IL SIGNOR MARIO

6 Nov

Leggo a proposito della sentenza dell’Alta corte di giustizia europea sul recupero dell’Ici da parte dell’Italia, senza entrare nel merito se riguardi solo la Chiesa cattolica o tutte le ong:

La Commissione aveva infatti riconosciuto all’Italia “l’assoluta impossibilità” di recuperare le tasse non versate nel periodo 2006-2011 dato che sarebbe stato “oggettivamente” impossibile sulla base dei dati catastali e delle banche fiscali, calcolare retroattivamente il tipo d’attività (economica o non economica) svolta negli immobili di proprietà degli enti non commerciali, e calcolare l’importo da recuperare”.

Assoluta impossibilità… oggettivamente impossibile… dati catastali… e banche fiscali”, par di capire, a leggerla così, che anche i dati catastali non si incrocino con le banche dati fiscali.

Ma allora il catasto e le banche dati fiscali a cosa servono!? Capisco quindi i molti abusi edilizi, dei quali si parla in questi giorni in seguito all’alluvione di Casteldaccia, che praticamente sono edifici fantasma in quanto oggettivamente non rintracciabili e perché venga colpito dal fisco il pizzicagnolo Mario (o altro a piacere), per aver regalato un panino al figlio di un amico senza aver emesso lo scontrino di € 0,00.

Quanto spendiamo ogni anno per queste banche dati la cui utilità è, con tutta evidenza, molto ridotta?

TI CANCELLO, QUINDI NON ESISTI

14 Ott

Venerdì 12 ottobre, assieme a mio nipote, sono stato a vedere la mostra sulle leggi razziali, proclamate a Trieste il 18 settembre 1938.

Mostra molto ben fatta dagli studenti del Liceo Petrarca che verteva quasi esclusivamente sulla storia della scuola ma con alcuni richiami alla cronaca dell’epoca tratti da Il Piccolo, quotidiano della città.

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La foto simbolo, secondo me, è quella di una classe della scuola con due volti cancellati (questa, fatta da mio nipote ne riprende la metà), segno del tentativo di annullamento delle persone.

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Mostra che dovrebbe far riflettere perché anche se non ufficialmente il diverso, che oggi non si chiama più ebreo, è ancora odiato da parte di alcuni tra noi, come testimoniano alcuni recenti episodi di cronaca.

Ho spiegato a mio nipote che quello che è stato lo sfruttamento dei neri nelle piantagioni di cotone nell’Alabama, nella Georgia e in genere nel Sud degli Stati Uniti lo ritroviamo nel caporalato nel foggiano e non solo per la raccolta dei pomodori.

Personalmente sono per il ripristino della parola negro, piú cruda ma certo piú sincera, perché persona di colore fa parte di quegli eufemismi come non vedente o diversamente abile che la linguista Nora Calzecchi Onesti chiamava nel titolo di un suo celebre manuale Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo e che noi ora chiamiamo politicamente scorretto. Rammentiamo che nell’ultima nazione ad avere ufficialmente la discriminazione razziale, la Repubblica Sudafricana, esigeva il colore della pelle scritto sulle carte di identità. Pochi sanno che il titolo originale del famoso giallo di Agatha Christie, “Dieci piccoli indiani” era “Ten little niggers”, poi cambiato in Ten Little Indians perché ritenuto inopportuno dall’editore. La discriminazione contro tutti quei diritti che sono garantiti dall’articolo 3 della nostra Costituzione è esercitata ora in altri modi, pur se la Repubblica ha il compito di osteggiarla.

La mostra è importante, e ora comincerà a girare per l’Italia con prima tappa a Milano, sia perché testimonia di un tragico fatto che ha portato alle consguenze che sappiamo, sia, come ho scritto più sopra, per le tentazioni di ricerca della razza perfetta che sono sempre in agguato qua e là in Europa e nel mondo. I destinatari dovrebbero essere gli studenti, che più di noi non hanno vissuto quella realtà, ma le molte persone adulte distratte o smemorate cui è bene rammentarla.