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DISPARITÀ?

22 Feb

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ORA CHE SEI MIO

4 Gen

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La pubblicità di un mobilificio nazionale propone una coppia di nuovi sposi nella loro casa. Nel dialogo parla prima lei: “Ora che sei mio” e lui  risponde, facendole eco: “Ora che sei mia”.

Lo faccio notare perché è lei che prende per prima la parola, su una base di parità.

Già nel Nuovo Testamento l’apostolo Paolo, in 1ª Corinzi 7:4, dice che nella coppia la potestà del corpo del coniuge spetta all’altro, e nel primo secolo questa era certamente un’affermazione rivoluzionaria che dovrebbe far ricredere coloro che considerano Paolo un misogino, forse solo perché a differenza di altri apostoli scelse il celibato (senza imporlo a nessuno).

A me rammenta il Cantico dei cantici, l’elogio dell’amore di coppia, in cui a narrare la bella storia d’amore è la Sulamita, una donna, in un epoca in cui le donne contavano niente.

(Nella foto la statua “Cantico dei cantici” di Marcello Mascherini, a Trieste).

 

DONNE, CONVENZIONI SOCIALI E TRADIZIONI

15 Dic

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Arundhati Roy è una scrittrice indiana e un’attivista politica impegnata nel campo dei diritti umani, dell’ambiente e dei movimenti antiglobalizzazione.

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Il suo libro Il dio delle piccole cose, in parte autobiografico e pubblicato nel 1966, l’anno successivo riceve il Booker Prize ma nel contempo suscita molte critiche e polemiche nei suoi confronti.

La trama: India, fine anni Sessanta: Ammu, figlia di un alto funzionario, lascia il marito, alcolizzato e violento, per tornarsene a casa con i suoi due bambini. Ma, secondo la tradizione indiana, una donna divorziata è priva di qualsiasi posizione riconosciuta. Se poi questa donna commette l’inaccettabile errore di innamorarsi di un paria, un intoccabile, per lei non vi sarà più comprensione, né perdono. Attraverso gli occhi dei due bambini, Estha e Rahel, il libro ci racconta una grande storia d’amore che entra in conflitto con le convenzioni.

Donne e ragazze “bruciate” sono anche le albanesi, figlie della cultura islamica, costrette a spostarsi o a emigrare perché non hanno più un futuro nel loro paese.

Guardando nel nostro orticello, nonostante gli anni trascorsi dall’abolizione del delitto d’onore, dalla riforma del diritto di famiglia e dalla legge sul divorzio, il giudizio non richiesto sulla fine di una relazione grava spesso sulla donna, con i “sì, ma” inespressi perché sottintesi, in palese disparità con la parte maschile, in funzione di quelle convenzioni sociali stratificatesi e diventate tradizioni che niente hanno a che vedere con la realtà.

(Con dedica)

DI TRADIZIONI E PLAGI

20 Nov

Perla era nata reietta dal mondo infantile. Rampollo di male, emblema e frutto di peccato, non aveva il diritto di frequentare i bambini battezzati. Nulla era più notevole dell’istinto, ché tale appariva, con cui la piccina comprendeva la propria solitudine; il destino che le aveva tracciato intorno un cerchio inviolabile; tutta la particolarità, infine, della sua situazione rispetto a quella dei coetanei. Mai, dopo la scarcerazione, Hester aveva affrontato gli occhi della gente senza di lei. In tutti i suoi tragitti per la città non mancava mai Perla; prima, pargoletta in braccio, poi fanciullina, minuscola compagna della madre, di cui stringeva un dito nel piccolo pugno, mentre saltellava tutta svelta per non restarle addietro. Vedeva i bimbi della colonia sul margine erboso della strada o sulla soglia di casa, baloccarsi nei tristi modi consentiti dall’educazione puritana; giuocando ad andare in chiesa; o a fustigare i quaccheri o a scotennare gli indiani in finte battaglie; o a farsi scambievolmente paura con strambe imitazioni di stregoneria. Perla stava a guardarli, non perdeva nulla della scena, ma non cercava mai di stringere amicizia. Interpellata, non rispondeva. Se i bambini facevan capannello intorno a lei, diventava davvero terribile nella sua piccola rabbia, brandiva dei sassi per colpirli, con certi strilli acuti, incoerenti, che facevan tremare la madre perché somigliavano tanto agli anatemi lanciati da una versiera in una lingua sconosciuta.

Fatto sta che i piccoli puritani, appartenendo alla genia più intollerante che sia mai vissuta, s’eran formati una vaga idea d’alcunché di bizzarro, di soprannaturale, o in contrasto con le abitudini correnti, nella madre e nella figlia; e perciò le disprezzavano in cuor loro, e non di rado le vilipendevano ad alta voce. Perla avvertiva quel sentimento, e lo ripagava con l’odio più fiero che possa esacerbare un seno infantile”.

Quando parliamo di integralisti la nostra mente va agli ebrei vestiti di nero, con le filatterie e col cappello nero oppure ai fanatici islamisti che nulla hanno a che vedere con gli islamici e che con i loro attentati stanno seminando il terrore in mezzo mondo, islamico compreso.

Non dimentichiamo però che anche una parte del cristianesimo quanto a fondamentalismo e intolleranza non fa tanta bella figura. Il cristianesimo che come comando principale ha “Ama Dio sopra ogni cosa e il tuo prossimo come te stesso”, o per dirla con Agostino d’Ipponia “Ama e fa ciò che vuoi”, si scontra con i principi non negoziabili di alcuni e le rivalità di altri.

Quello che ho riportato è un brano tratto da La lettera scarlatta, di Nathaniel Hawthorn, nato a Salem, Massachusset. Quella Salem che nel 1692 visse la triste vicenda della caccia alle streghe che portò sul rogo tante donne per il semplice sospetto, ovviamente mai provato, di stregoneria, ben proposto tra gli altri da Arthur Miller nella commedia Il crogiolo.

Pubblicato nel 1850, il romanzo di Nathaniel Hawthorn, con i temi del peccato, della grazia e del perdono è ambientata nella Boston del 1642, appena cinquant’anni prima della caccia alle streghe, in quell’America bigotta dei Puritani, eredi dei Padri Pellegrini che tanto brave persone non furono, che tra le opzioni preferirono la condanna dell’adultera protagonista non a morte come la loro legge avrebbe comandato ma a continuare a vivere ai margini della società con la lettera A di adultera sul vestito finché non avesse confessato con chi aveva consumato il peccato.

La frase in neretto ben evidenzia come tutto ciò e l’educazione che ne conseguiva, influenzavano i bambini che giocavano ad andare in chiesa.

Tutto ciò avveniva nel diciassettesimo secolo ed è stato riproposto da uno scrittore un secolo dopo, ma certi fenomeni, spesso i peggiori, sono duri a morire.

Nel 2016 Ken Follet, scrittore che certo non ha bisogno di presentazioni, ha pubblicato Cattiva fede, la storia del plagio da lui subito, proprio come i bambini di Boston del romanzo, e conseguente allontanamento dalla fede.

È dovere dei genitori allevare e istruire i figli, e dell’istruzione fa parte la trasmissione delle credenze religiose, ma non si deve mai plagiarli o privarli della loro personalità e delle occasioni che hanno, crescendo, di fare le proprie scelte anche non condivise dai genitori.

(È interessante che il libro di Ken Follet nel testo italiano cita i riferimenti biblici, cosa che non fa in quello inglese, perché nel mondo anglofono la conoscenza delle Scritture è un dato assodato).

LA PANCHINA ROSSA NON È VUOTA

1 Nov

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La panchina rossa di novembre non è vuota come potrebbe sembrare.

È affollata da tutte quelle donne la parola delle quali nei millenni non è stata ritenuta degna di credibilità, che a differenza degli uomini hanno dovuto dimostrare la loro innocenza anche con atti umilianti, come l’esposizione del lenzuolo nunziale a testimonianza della loro castità prematrimoniale, che sono state messe al rogo senza troppi scrupoli come le presunte streghe di Salem, che contrariamente a quanto prevede la nostra Costituzione non hanno ancora, a fine 2019, ottenuto la parità di rango, anche solo la parità salariale, che fin dalla nascita sono state considerate improduttive, dei maschi mancati ben espresso nel detto siciliano “nottata persa e figlia femmina” alla nascita di una bambina, anche se sappiamo che le donne sono state e sono le colonne portanti della società e dell’economia, che, nelle parole di Emilio Brentani in Senilità, romanzo di Italo Svevo, non sono state e nella mentalità di molti non sono tuttora “piú di un giocattolo”, da abbandonare o spesso ammazzare dopo l’uso. Le donne oggetto di matrimoni combinati, non solo “ai piani alti” per conservare la dinastia di un impero o di un regno, ma anche terra terra, oggetto di accordi tra famiglie per i matrimoni riparatori in seguito a un abuso, ai quali per prima seppe opporsi con fermezza Franca Viola, ragazza di 17 anni negli anni ‘60 in Sicilia, rendendo inefficace l’articolo 544 del Codice Penale, le donne da sempre bottino di guerra a soddisfazione dei vincitori, e se non violentate rapite contro la loro volontà, come nel ratto delle Sabine che ci hanno insegnato alle elementari, quando eravamo troppo piccoli per capire, d’altra parte era la storia della costruzione di Roma vuoi mettere?

I loro nomi? Alcuni sono ben noti come Ipazia di Alessandria, ammazzata dal fanatismo pseudo cristiano per essersi messa a studiare e aver avuto l’ardire di insegnare svolgendo un lavoro riservato agli uomini, tornata in auge nel 2009 per il film di Alejandro Amenábar Agorà e poi “ripiegata e riposta nel cassetto” per la prossima occasione, come molti fanno col Tricolore per i Mondiali, Artemisia Gentileschi, violentata dal maestro di pittura a cui l’aveva affidata il padre, o Hester Prynne, protagonista del romanzo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, condannata dalla comunità locale di puritani che te li raccomando a portare un simbolo significativo della sua vergogna per non aver voluto rivelare chi fosse il padre del frutto del peccato, come si diceva fino a non troppo tempo fa, pensiamo solo ai cognomi col prefisso certo non nobiliare de o della seguiti da nome femminile che indicavano il figlio di una ragazza madre, al divieto di nove mesi di convolare a nuove nozze per una vedova per essere certi di chi fosse il padre dell’eventuale nascituro, oppure, per restare in letteratura, il falso pudore nel tradurre in La Lucrezia violata il titolo dell’opera di William Shakespeare The Rape of Lucretia, perché la parola stupro, nel cartellone di un teatro sta proprio male!

Ci sono dei nomi che non troverete mai perché molte donne per poter studiare, agire e presentare le loro opere hanno dovuto usare pseudonimi maschili come quelli di Currer, Ellis e Acton Bell, scelti rispettivamente dalle scrittrici Charlotte, Emily e Anne Brontë, usati per sfuggire ai pregiudizi e ai costumi dell’epoca ottocentesca, come Nelle Harper Lee, del secolo scorso, autrice de Il buio oltre la siepe che rinunciò al primo nome per lasciare l’impressione di essere un uomo, o, peggio, di quelle donne che sono mogli o figlie vittime di quella violenza domestica che non trasuda dai muri perché per vergogna, per paura o per scarsa fiducia nelle Istituzioni, non hanno il coraggio di denunciare. I loro nomi purtroppo si leggono a cose fatte sulle loro tombe.

Per questo dobbiamo tener alta l’attenzione tutto l’anno, altrimenti a poco serve la carrellata di eventi del 25 novembre.

A PROPOSITO DELL’ORGOGLIO

7 Ott

Siamo abituati ad abusare dei sinonimi, o meglio a usare indistintamente termini che esprimono concetti diversi, come ascoltare, udire e sentire. Si può infatti udire il suono di ciò che l’altro dice senza ascoltare, prestare cioè attenzione alle sue parole e di conseguenza non sentire empatia o disapprovazione per quanto espresso, similmente si può vedere per caso o distrattamente qualcosa o guardare con attenzione.

Contadino, cafone e villano, sono sinonimi usati in aree geografiche diverse da Nord a Sud che però nell’uso comune sono spesso usati in senso dispregiativo riguardo alle persone.

Così abbiamo altezzosità, superbia e orgoglio.

Altezzoso è colui che si ritene superiore agli altri, spesso facendolo notare con il suo atteggiamento distaccato, non a caso il contrario è “alla mano”.

Superbo è colui che ha un’esagerata stima di sé, e dev’essere un vizio antico visto che uno dei re di Roma, Tarquinio, nipote di Tarquinio Prisco, è passato alla storia con questo appellativo non certo gratificante.

L’orgoglio, se vissuto bene in modo da non cadere nell’altezzosità o nella superbia, è una marcia in più, un rafforzamento dell’autostima della persona. Dobbiamo essere orgogliosi, senza necessariamente vantarcene a destra e a manca, di un lavoro fatto bene o un traguardo raggiunto, perché spesso ci dimentichiamo che per voler bene al nostro prossimo dobbiamo voler bene a noi stessi. Dobbiamo essere orgogliosi dell’educazione data ai nostri figli e traferire loro nel modo opportuno questo sentimento, che riguardi un bel voto o a scuola o una loro piccola o grande conquista sociale (qui non c’entrano nulla l’eventuale gelato ai più piccoli o la mancetta ai più grandicelli).

Questo post nasce da un twitt di @francy_0207 che il 3 ottobre ha scritto:

“Mamma, quanto mi da fastidio quando dicono che voi #donne siete deboli o ridono di voi…” “E chi lo fa?” “A volte anche i miei compagni… Ma io vi difendo perché siete forti, molto più forti. E sono un uomo eh!” (Matteo).

In sole quattro righe questo piccolo ma solo di taglia aspirante uomo dimostra di aver capito molto di più di molti maschi adulti.

Come non essere orgogliosi o se volete, fieri, di un bambino che si esprime così, che in tutta evidenza ha ricevuto un’educazione al rispetto verso le donne in famiglia, prima ancora che a scuola!?

Dedicato a Matteo e a sua mamma Francisca.

QUANTE COSE DENTRO UNA MELAGRANA

28 Set

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La melagrana, assieme alla zucca e più in là alle castagne, è simbolo dell’autunno, nel quale avremo qualche giorno di tempo bello ma le nostre abitudini anche alimentari subiranno inevitabilmente dei cambiamenti. Tra le sue proprietà la melagrana è un antiossidante.

Chi di noi ha studiato le poesie rammenta certamente il Canto Antico di Giosuè Carducci, scritta in memoria del figlio morto:

L’albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da’ bei vermigli fior,

[…]

Nella Sacra Scrittura il melograno è simbolo di abbondanza, assieme a frumento, orzo, viti, e fichi della Terra promessa. La melagrana decorava le vesti del Sommo Sacerdote e i capitelli del Tempio di Salomone.

Rientra nella descrizione delle fattezze della Shulamita, la ragazza protagonista del libro d’amore che conosciamo come Cantico dei cantici, poema attribuito a Salomone per artificio letterario (incipit: “Cantico dei cantici, che è di Salomone”) ma probabilmente, come sostiene tra gli altri Amos Oz nel libro Gli ebrei e le parole, dedicato a lui e scritto da una donna, la Abisag che Davide ormai vecchio si prese, diremmo in termini moderni, come badante notturna affinché dormisse con lui per fargli caldo senza rapporti e che viene alla morte di lui rivendicata da Salomone. Cose che si riescono a comprendere solo avendo una grande padronanza della lingua ebraica.

La bellezza della giovane è descritta nel capitolo quattro del Cantico dei cantici in un crescendo sensuale che nulla ha di volgare e paragona le sue gote nascoste dietro un velo ad un pezzo di melagrana. Descrizione che avrebbe certo fatto infuriare ancor di più la madre di Beatriz, che andò a dire al suo parroco che Mario, il postino di Neruda, “le dice metafore”, nel romanzo di Antonio Skármeta.

(la foto è mia, scattata qualche anno fa a Pirano, in Slovenia).

Il Cantico dei cantici per l’esplicita assenza di Dio nel suo testo assieme a Qohelet, per la sua visione negativa della vita, sebbene riesca a dire nel capitolo tre che “l’Eterno messo nel cuore dell’uomo il pensiero dell’eternità, benché non lo riesca a comprendere dal principio alla fine” con un esplicito richiamo all’albero della vita del giardino di Eden, sono stati gli ultimi due testi inclusi nel canone ebraico.

DINA, UNA DI NOI

9 Mar

Le Scritture, si sa, non si soffermano sui fatti di cronaca relativi alla sfera sessuale, sia perché essa era ben codificata, sia perché le ragazze e i ragazzi si sposavano relativamente presto rispetto ad ora e alcuni problemi non sorgevano.

Certo, è raccontato di come il re Davide, invaghitosi di Betsbabea, la moglie di Uria, alla fine lo mandò in battaglia in prima linea per aver campo libero, e della presunzione di innocenza di una giovane se la violenza fosse avvenuta in campagna, perché “forse ha urlato per chiedere aiuto ma nessuno l’ha udita”.

C’è un episodio che per il nome della protagonista e per il luogo potremmo benissimo trasportare nella nostra realtà di oggi.

Dina, la figlia che Lia aveva partorita a Giacobbe, uscì a vedere le ragazze del paese. Ma la vide Sichem, figlio di Camor l’Eveo, principe di quel paese, e la rapì, si unì a lei e le fece violenza. (Genesi 34:1-2).

Modernità, dicevo, perché Dina è un nome ancora in uso, di una ragazza che andò al pozzo a coglier l’acqua – era un compito da donna – e si fermò a parlare con le amiche, come avviene ora con le nostre giovani in piazza o nei centri commerciali.

La storia prende una brutta piega quando Dina non torna a casa ma Sichem, il figlio del principe di quel paese 1) la vede 2) la rapisce e 3) si unisce a lei facendole violenza.

Chi vuole può leggere il resto in Genesi 34.

Molto attuale se pensiamo a quanto succede quasi ogni giorno nelle nostre città, non da parte di figli di principe ma di bullotti qualunque.

Di un’attualità sconcertante che non può lasciare indifferente nessuno, donna o uomo che sia.

CINQUE DONNE

9 Mar

Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abrahamo”. Così comincia la storia di Gesù secondo Matteo, che inizia da Abramo, capostipite degli ebrei. Una genealogia incompleta e simbolica, divisa in tre gruppi di quattordici persone.

In tutta questa lista di nomi di uomini – sono loro quelli che contano! – sono nominate cinque donne, Tamàr, Racàb, Ruth, la “vedova di Uria” e Maria di Nazareth. Donne sicuramente diverse tra di loro, per epoca e per destino, ma che lasciano un segno nella storia di Israele.

Sappiamo che quella biblica non è una storia solo di gente per bene. Pensiamo alla facilità con cui Esaù cedette la primogenitura, il racconto del fatto si conclude con la considerazione “Tanto poco stimò Esaù la primogenitura”, o l’inganno con cui Giacobbe estorse la benedizione dal padre Isacco.

La prima donna, Tamar, era la moglie che Giuda, fratello di quel Giuseppe venduto per invidia a una carovana di egiziani, aveva preso per il primogenito Er, come leggiamo in Genesi 38. Dopo la morte di due dei tre figli, Giuda allontanò Tamar, che avrebbe avuto il diritto di sposare il più giovane in base alla legge del levirato, invitandola a tornare a casa di suo padre come vedova, per paura che anche anche il terzo figlio morisse. Che le donne portino sfortuna?!

Tamar, per rivendicare il suo diritto, un giorno in cui Giuda salì dalle sue parti, si finse prostituta per passare una notte con lui nel tentativo, riuscito, di rimanere incinta di lui. Giuda fece una pessima figura, ma da quell’incontro nacquero due gemelli, il primo dei quali fu chiamato Perez, che ritroviamo in Matteo 1 con il nome di Farez.

La seconda donna della genealogia è Racab. Di lei leggiamo, in Giosuè 2, che nascose gli esploratori mandati a Gerico da Giosuè. Potremmo avere molto da dire su questo tradimento verso il re di Gerico, che lei compì per mettere in salvo la sua famiglia, ma la Scrittura ci dice che lo fece perché aveva riconosciuto la sovranità del Signore.

Di Ruth potremmo anche non parlare, tanto è famosa la sua promessa, “Ma Ruth replicò: “Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te, perché dove andrai tu, andrò anch’io, e dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. Dove morirai tu, morirò anch’io e lì sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e altro ancora, se altra cosa, che non sia la morte, mi separerà da te”. Questa promessa spesso è usata nei matrimoni, in realtà è fatta, cosa non da poco, da una nuora a una suocera!

Tornate assieme al paese di Bet Lehem – che conosciamo meglio con il nome di Betlemme – Ruth comincia a lavorare come spigolatrice per Booz, un coltivatore del posto che scopriremo essere suo parente alla lontana. Questi la prende in ben volere perché ha udito parlare della sua fedeltà alla suocera, e finisce con lo sposarla.

È interessante notare che una storia da “cronaca rosa” come questa è stata inserita nel canone ebraico, così come è stato inserito il Cantico dei Cantici, che, prima di un’eventuale lettura in chiave spirituale, è una bella storia d’amore di insegnamento ai giovani.

Alla nascita del figlio di Booz e Ruth, le donne dissero a Noemi: “Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli”. Noemi prese il bambino, se lo pose in grembo e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: “È nato un figlio a Noemi!”. E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide.

La storia di Betsabea, che Matteo non chiama per nome, ma ricorda come “moglie di Uria”, è una storia triste fatta di meschinità e di abuso di potere, degna più degli imperatori romani (Svetonio, Vita dei cesari) che di un re di Israele.

Il re Davide, quello che da giovane fu scelto per la successione a Saul e che con un colpo netto di fionda uccise il gigante Golia, quello che ci ha lasciato gran parte dei centocinquanta salmi, fu artefice di un omicidio per riparare all’avventura di una notte, provocando la morte del marito di lei. 

Più avanti, messo di fronte all’evidenza del suo peccato dal profeta Nathan, se ne pentì, non però senza conseguenze.

L’ultima donna in ordine di tempo è Maria di Nazareth, di cui gli evangelici, per reazione a chi ne parla troppo, parlano poco.

Di lei sappiamo che era una tra le tante ragazze di Israele che speravano di dare alla luce il messia che doveva venire, per questo l’angelo Gabriele la chiama “favorita dalla grazia” e lei dice di se stessa “tutte le generazioni mi chiameranno beata”.  Tanto per chiarirci le idee gli ebrei di quel momento non avevano del messia l’idea che ci ha proposto Gesù, ma piuttosto una guida che li avesse liberati definitivamente dai Romani.

I vangeli di questa donna dicono poco. Dopo gli avvenimenti della nascita, ricordati da Matteo e da Luca, la incontriamo a Gerusalemme quando Gesù a dodici anni si mette a discutere con i dottori, alle nozze di Canan, un paio di volte assieme agli altri suoi figli a cercare Gesù, in ultimo sotto la croce e nel cenacolo alla discesa dello Spirito Santo. Di più non dice neanche l’apostolo Giovanni, cui era stata affidata se non materialmente, poiché aveva altri figli almeno spiritualmente da Gesù sulla croce e che ha scritto il suo vangelo negli anni novanta. Sarà dichiarata assunta in cielo appena nel 1951.

Ma quello che più ci interessa di lei è il suo sì incondizionato, che non va sottovalutato. Se da una parte è un sì di meraviglia e di gioia per essere stata scelta tra tutte le giovani donne d’Israele per dare alla luce il Messia, è anche un sì di completa disponibilità, “ecco la serva del Signore, si faccia di me come hai detto tu”.

Un sì che, dopo la dipartita dell’angelo, sul momento forse le sarà pesato per le conseguenze alle quali si esponeva. Maria era già fidanzata con Giuseppe, e il fidanzamento era un contratto prematrimoniale vincolante. Avrebbe dovuto chiedere il permesso a lui, non rispondere di getto. Tutte cose secondarie rispetto all’annuncio dell’angelo, ma che la mettevano fuori dalla norma.

Il comportamento di due di queste cinque donne non è proprio esemplare, Tamàr si spaccia per prostituta, Betsabea si concede a Davide tradendo il marito. Maria, come abbiamo appena visto, contravviene ad altre regole sociali. Quattro su cinque, inoltre, sono straniere.

L’insegnamento che possiamo ricavarne è che le norme quando ci sono vanno osservate, però con le dovute eccezioni.

DISUGUALI – 2

9 Mar

Ho ricevuto in regalo una T-shirt di Robe di Kappa. Il logo, che non riproduco perché abbastanza famoso mi piace, e lo cito spesso per indicare la parità di genere.

Pare che l’abilità del fotografo sia stata di fotografare i due giovani seduti schiena contro schiena durante una loro pausa di riposo. Le foto spontanee sono spesso le migliori.

Mi piace perché i due non sono uno di fronte all’altra, posizione che farebbe pensare forse solo all’atto sessuale, ma seduti con la schiene che si sostengo l’una l’altra, in un reciproco aiuto.

La seguente è una mia riflessione sulla parità tra uomo e donna scritta un paio di anni fa.

Disuguale” non è “differente” o “diverso”. Dis-uguali, uguali ma diversi, non è un gioco di parole o un esercizio di stile, è il senso del “Dio creò l’essere umano a sua immagine, a immagine di Dio lo creò (al singolare!), maschio e femmina li creò (al plurale)” (Genesi 1.27).

Essere umano” e non “uomo”, come troviamo nelle traduzioni in italiano, rende l’idea di הָֽאָדָם֙ in ebraico e di τὸν ἄνθρωπον in greco, lingua della traduzione chiamata “Settanta”, cui fanno riferimento tutte le citazioni nel Nuovo Testamento.

Essere umano, dunque, unico, diviso nel verso successivo in due identità, maschile e femminile. Lo stesso concetto è espresso nella narrazione di Genesi 2:18-25, testo che sappiamo essere antecedente a Genesi 1, ed è bene espresso nelle parole dell’uomo, “Allora l’uomo disse, “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”, senza alcuna pretesa di superiorità da parte dell’uomo (l’ebraico, a differenza dell’italiano, ha lo stesso termine per uomo e donna, come i nostri figlio e figlia, cugino e cugina).

Dal punto di vista dell’ebraismo rabbinico non cambia gran che, perché la sottomissione della donna ha altre origini, per un certo cristianesimo neppure perché si fa forza del castigo dopo il peccato in Eden “Alla donna disse, “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Genesi 3:16).

La storia, antica ma neppure recente, non si fa con i “se” e con i “ma”. Certo però che se per onestà si leggesse Genesi 1:27 per quello che dice e non per ciò che si vuole che dica, oggi le cose potrebbero cambiare.