Archivio | gennaio, 2020

ESERCIZI DI SCRITTURA

28 Gen

Dal portale dell’Accademia della Crusca. Ripassarli non fa male, soprattutto per coloro che si occupano di comunicazione.

SINTESI DELLA COMUNICAZIONE

22 Gen

Sia il vostro parlare sì, sì, no, no, perché il di più vien dal Maligno”

Detto dal Figlio di Colui che dettò le dieci parole.

PERDONARE È IMPEGNATIVO

19 Gen

Al CPR di Gradisca, vicino a Gorizia, un migrante ventenne è morto in seguito una rissa. In questo caso non si è trattato di sovraffollamento della struttura, piaga che assilla la gran parte delle Case circondariali italiane, in contrasto con quanto espresso dall’articolo 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

In articolo l’Agenzia Ansa qualche giorno fa ci informa su come sono impegnati alcuni detenuti. Alcuni, perché la maggior parte sono rinchiusi ad oziare, certo senza ricevere la rieducazione prevista dalla Costituzione, e il numero dei loro suicidi, assieme a quello degli agenti della Polizia penitenziaria, è verificabile sui siti che si occupano di questa problematica, come quello di Antigone.

Gherardo Colombo nel 2013 provò ad affrontare il problema proponendo degli spunti di riflessione nel libro “Il perdono responsabile – Perché il carcere non serve a nulla”.

Accanto a perdono c’è l’aggettivo responsabile, perché la richiesta e la concessione del perdono sono atti che seguono una maturazione interiore, anche se alcuni articoli di stampa li banalizzano. Solo i bambini nella loro innocenza possono usare l’espressione “ti perdono” con leggerezza dopo una litigata.

COPERTURE FINANZIARIE

18 Gen

A udire a pranzo, merenda e cena le promesse elettorali dei vari schieramenti politici, promesse a sostegno delle quai non viene mai citata la copertura finanziaria, non so a voi ma a me torna in mente il raggiro del Gatto e della Volpe al capitolo dodici di Pinocchio.

E, se debbo dirla tutta, mi hanno anche stufato. Poi magari sbaglio.

Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:

Come si chiama tuo padre?

Geppetto.

E che mestiere fa?

Il povero.

Guadagna molto?

Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dové vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga.

Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Vai subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia.

Pinocchio, com’è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio, abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della Compagnia, anche i gendarmi: e fuori di sé dalla contentezza, si mise in viaggio per tornarsene a casa sua.

Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.

Buon giorno, Pinocchio, – gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.

Com’è che sai il mio nome? – domandò il burattino.

Conosco bene il tuo babbo.

Dove l’hai veduto?

L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.

E che cosa faceva?

Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.

Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!…

Perché?

Perché io sono diventato un gran signore.

Un gran signore tu? – disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.

C’è poco da ridere, – gridò Pinocchio impermalito. – Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro.

E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.

Al simpatico suono di quelle monete la Volpe, per un moto involontario, allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi, che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accorse di nulla.

E ora, – gli domandò la Volpe, – che cosa vuoi farne di codeste monete?

Prima di tutto, – rispose il burattino, – voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.

Per te?

Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.

Guarda me! – disse la Volpe. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.

Guarda me! – disse il Gatto. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi.

In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il solito verso e disse:

Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai!

Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto.

Mangiato che l’ebbe e ripulitasi la bocca, chiuse gli occhi daccapo e ricominciò a fare il cieco, come prima.

Povero Merlo! – disse Pinocchio al Gatto – perché l’hai trattato così male?

Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri.

Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:

Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?

Cioè?

Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?

Magari! E la maniera?

La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venire con noi.

E dove mi volete condurre?

Nel paese dei Barbagianni.

Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:

No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: “I ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo”. E io l’ho provato a mie spese, Perché mi sono capitate di molte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo… Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!

Dunque, – disse la Volpe, – vuoi proprio andare a casa tua? Allora vai pure, e tanto peggio per te!

Tanto peggio per te! – ripeté il Gatto.

Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.

Alla fortuna! – ripeté il Gatto.

I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.

Duemila! – ripeté il Gatto.

Ma com’è mai possibile che diventino tanti? – domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.

Te lo spiego subito, – disse la Volpe. – Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d’oro. Poi ricuopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.

Sicché dunque, – disse Pinocchio sempre più sbalordito, – se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverei?

È un conto facilissimo, – rispose la Volpe, – un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque e la mattina dopo ti trovi in tasca duemila cinquecento zecchini lampanti e sonanti.

Oh che bella cosa! – gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. – Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri due.

Un regalo a noi? – gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. – Dio te ne liberi!

Te ne liberi! – ripeté il Gatto.

Noi, – riprese la Volpe, – non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.

Gli altri! – ripeté il Gatto.

Che brave persone! – pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:

Andiamo pure. Io vengo con voi”.

(Carlo Collodi, Le Avventure di Pinocchio – Storia di un burattino, Firenze, 1982).

QUESTIONE DI MERENDE

17 Gen

A margine all’episodio della schedatura per reddito avvenuto in una scuola di Roma, rammento un fatto occorso a me quando mia figlia era alla scuola materna.

Ricevemmo “una convocazione per comunicazioni urgenti, alle 17:00”. Tempo di arrivare, alle 17:05 era tutto finito. Mi incontrai con un altro padre che stava uscendo al quale chiesi quale fosse stato il motivo della convocazione.

Mi rispose che le suore, per evitare disparità sociali, avevano deciso che la merenda fosse fornita dalla scuola e non più portata da casa.

Posso capire una decisione del genere per i regali di San Nicolò, come si usa qui, o di Natale, perché può esserci un bambino di famiglia memo abbiente che può restarci male difronte a un regalo di valore ricevuto da un suo compagno, ma ciò non ha nulla a che vedere con la merenda.

La merenda è un fenomeno di crescita sociale, con i bambini che barattano per  scambiarsela, a volte la rubano a un compagno, azione certo non lodevole ma dalla quale la maestra può trarre spunto per una lezione sulla legalità.

I bambini hanno un linguaggio tutto proprio, che supera anche le difficoltà linguistiche e finché non alzano le mani lasciamo che se la sbrighino da soli nei loro negoziati. Sono stati riproposti in versione cinematografica Pinocchio e Piccole donne, qualcuno dovrebbe farlo anche con Cuore che nonostante la sua età ci racconterebbe molte cose sulla scuola.

FIL ROUGE

11 Gen

##&??%## – questa è una parolaccia, nei fumetti;

beep questa è la stessa parolaccia, censurata in un audio;

Valona – questo è il nome di una città estera in italiano;

Florence – questo è il nome di una città italiana in una lingua straniera;

🙂 – questo è un emoticon (faccina);

tvtb – questa è la sintesi di un msg tra due ragazzi;

ΔИНАРА – questa è una parola in un altro alfabeto;

kai ke kelle terre – questo è l’incipit del primo testo accreditato in italiano (o almeno così ci hanno raccontato a scuola);

eccetera…

Qual è il fil rouge che unisce queste parole?

ELOGIO DELLA LENTEZZA

7 Gen

teverde

Esiste una profonda differenza tra il fumo di sigaretta e quello della pipa, scrivere con una tastiera o con una stilografica e bere un caffè o un te.

Il fumo di sigaretta (al di là dei danni da fumo) è una pausa breve, spesso inconscia mentre il fumo di pipa esige tutto un rituale, la pulizia, il riempimento, l’accensione e, dopo, il gusto di tenere l’attrezzo in bocca, spesso per “darsi un tono”.

Ormai siamo abituati a scrivere con la tastiera, nei vari strumenti, smartphone, tablet e pc, spesso per una presunta fretta e soprattutto per l’imporsi della posta elettronica sulla incerta posta cartacea. Eppure, una lettera d’amore e un biglietto di ringraziamento esigono ancora una stesura in calligrafia che per chi la sa apprezzare ha un fascino tutto suo, come i lavori fatti a tombolo. Ultimamente da più parti scientifiche la scrittura a mano si sta rivalutando proprio perché aiuta a pensare e a comprendere meglio ciò che si sta scrivendo con la ricerca delle parole migliori tra i vari sinonimi con le loro sfaccettature differenti. Bisognerebbe che la scuola primaria insegnasse anche l’eleganza della calligrafia, forse con metodi più moderni dell’”asta e filetto”.

Un giorno venne in transito a casa nostra un amico di Liverpool che stava recandosi in Romania. Dopo cena si offrì di preparare il te, lo lasciammo fare perché chi meglio di lui?

Si sa che per gli inglesi il te è una cosa seria, più del caffè per i napoletani. Non a caso Cesare non riuscì a conquistare l’Inghilterra, come è ben documentato da Asterix nel libro storico “Asterix in Britannia” perché mentre tutti gli altri eserciti all’epoca posavano le armi per motivi pratici al tramonto, gli inglesi, cascasse il mondo, si fermavano alle 17:00 per il rito della degustazione della loro “acqua calda”.

Mentre il caffè è bevuto in fretta si chiama espresso in ricordo di quando i treni arrivavano puntuali, ma questa è un’altra storia, il te è servito nella teiera proprio perché se ne presuppone una degustazione lenta, senza fretta.

Poi succede che vai al reparto spezie del supermercato e scopri che hanno messo in vendita il te in cialde. Una passata di trenta secondi nella macchina del caffè e il gioco è fatto.

L’Unione Europea, che mette in discussione la lunghezza dei fagiolini o il calibro dei ceci, non ha nulla da dire al proposito? Poi non lamentiamoci per l’imminente Brexit!

TUTTO COME PRIMA

5 Gen

Sono andato a leggere i miei primi post da quando ho cominciato a tenere un blog pubblico su una piattaforma che nel 2011 ha chiuso e che ho salvato con un back up.

A parte i particolari contingenti e le date, non è cambiato nulla!, le stragi del sabato sera, la droga, le crisi del lavoro, l’inefficienza del sistema scolastico, la guerra (e la relativa indecisione italiana) e in generale la società.

L’aspetto negativo è che si sono aggiunti alti punti di crisi, la denatalità, i femminicidi, la povertà, la xenofobia…

Fa paura non poter vedere un futuro per i nostri giovani 😦

ORA CHE SEI MIO

4 Gen

canticodeicantici

La pubblicità di un mobilificio nazionale propone una coppia di nuovi sposi nella loro casa. Nel dialogo parla prima lei: “Ora che sei mio” e lui  risponde, facendole eco: “Ora che sei mia”.

Lo faccio notare perché è lei che prende per prima la parola, su una base di parità.

Già nel Nuovo Testamento l’apostolo Paolo, in 1ª Corinzi 7:4, dice che nella coppia la potestà del corpo del coniuge spetta all’altro, e nel primo secolo questa era certamente un’affermazione rivoluzionaria che dovrebbe far ricredere coloro che considerano Paolo un misogino, forse solo perché a differenza di altri apostoli scelse il celibato (senza imporlo a nessuno).

A me rammenta il Cantico dei cantici, l’elogio dell’amore di coppia, in cui a narrare la bella storia d’amore è la Sulamita, una donna, in un epoca in cui le donne contavano niente.

(Nella foto la statua “Cantico dei cantici” di Marcello Mascherini, a Trieste).