Venticinque anni fa, in questi giorni di luglio, molto prima dunque di Facebook e gli altri Social Media, la RAI trasmise in diretta quasi tutta l’agonia e la morte di Alfredo Rampi, un bambino di sei anni caduto in un pozzo lasciato inavvertitamente aperto.
Fu l’inizio della televisione spettacolo, preceduta solo dalla diretta notturna del giornalista Tito Stagno sullo sbarco sulla Luna.
I due eventi non sono certamente comparabili, mentre il primo sbarco sulla Luna fu un evento culturale unico nel suo genere, la morte del piccolo Alfredo Rampi diede origine alla televisione pietistica, strappalacrime, quella che “bucando lo schermo” porta in casa le disgrazie altrui non tanto come fatti di cronaca quanto come fatti da commentare, sezionare, giudicare, per giorni, giorni e giorni.
Mario Calabresi oggi su Repubblica.it fa una condivisibile riflessione sulle notizie e i commenti che girano sui Social, in particolare su Facebook a cui, per i motivi più volte espressi, non sono iscritto e non frequento.
I Social Media – “Social Network” esprime un altro concetto – vanno seguiti con cautela perché la tesi vox populi vox dei non regge. Spesso sono opinioni personali e troppo spesso sono degli sfoghi volgari che degradano chi li fa.
Ma torniamo alle immagini.
Un motto giornalistico dice che “un’immagine vale più di mille parole”, mentre sappiamo che basta un buon fotografo per far passare un messaggio completamente diverso dalla realtà dei fatti.
La domanda che pongo a Mario Calabresi, ma anche alla filosofa Michela Marzano che oggi ha scritto che le parole non bastano più è se, forse, non ci siamo assoggettati passivamente a quella società dell’immagine ben descritta nel “quindici minuti di notorietà” da Andy Warhol.
Abbiamo veramente perso la capacità di decifrare le parole che i nostri nonni comprendevano quando ascoltavano un giornale radio?
Che l’Italia abbia il primato dell’analfabetismo di ritorno è una triste realtà, che però non si risolve con le immagini “a nastro”. C’è bisogno di un riscatto culturale personale, che prevede anche lo spegnimento della televisione, e una rieducazione alla comprensione delle singole parole e al loro uso nei vari contesti. La scuola è utile se si trova l’insegnante preparat* e motivat* la televisione, con i programmi cosiddetti di intrattenimento, rema contro.
Per fare un esempio molto recente, non è stato molto utile il giorno dell’attentato a Dacca far vedere la pianta del Bangladesh quando molti, anziani e giovani, non sanno dov’è questa nazione.
Ascoltando un giornale radio svizzero nelle previsioni del tempo può capitare di udire “A Sud, sulle Alpi…” e di certo dobbiamo fare un attimo di mente locale e rammentare che la Svizzera è a Nord della catena montuosa.
Questione di abitudine. La stessa che ci fa usare normalmente la tastiera del telefono, che va da 1 a * e quella di una calcolatrice che ha le cifre in ordine inverso senza problemi ma che ci chiede uno sforzo quando impostiamo il nome di una località nel navigatore perché le lettere sono in ordine alfabetico, quello al quale, invece, dovremmo essere più abituati.
Questione culturale, quella che per una volta offrì la RAI in occasione del disastro dell’Heysell, il 29 maggio 1985, quando mandò in onda la diretta senza alcun commento, le immagini erano sufficientemente eloquenti.
Molti lo stanno facendo per situazione meno drammatiche anzi, di svago, togliendo l’audio nelle corse di Formula 1 o nelle partite di calcio perché preferiscono la propria opinione a quella del commentatore.
Saper ragionare con la propria testa.
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