La panchina rossa di novembre non è vuota come potrebbe sembrare.
È affollata da tutte quelle donne la parola delle quali nei millenni non è stata ritenuta degna di credibilità, che a differenza degli uomini hanno dovuto dimostrare la loro innocenza anche con atti umilianti, come l’esposizione del lenzuolo nunziale a testimonianza della loro castità prematrimoniale, che sono state messe al rogo senza troppi scrupoli come le presunte streghe di Salem, che contrariamente a quanto prevede la nostra Costituzione non hanno ancora, a fine 2019, ottenuto la parità di rango, anche solo la parità salariale, che fin dalla nascita sono state considerate improduttive, dei maschi mancati ben espresso nel detto siciliano “nottata persa e figlia femmina” alla nascita di una bambina, anche se sappiamo che le donne sono state e sono le colonne portanti della società e dell’economia, che, nelle parole di Emilio Brentani in Senilità, romanzo di Italo Svevo, non sono state e nella mentalità di molti non sono tuttora “piú di un giocattolo”, da abbandonare o spesso ammazzare dopo l’uso. Le donne oggetto di matrimoni combinati, non solo “ai piani alti” per conservare la dinastia di un impero o di un regno, ma anche terra terra, oggetto di accordi tra famiglie per i matrimoni riparatori in seguito a un abuso, ai quali per prima seppe opporsi con fermezza Franca Viola, ragazza di 17 anni negli anni ‘60 in Sicilia, rendendo inefficace l’articolo 544 del Codice Penale, le donne da sempre bottino di guerra a soddisfazione dei vincitori, e se non violentate rapite contro la loro volontà, come nel ratto delle Sabine che ci hanno insegnato alle elementari, quando eravamo troppo piccoli per capire, d’altra parte era la storia della costruzione di Roma vuoi mettere?
I loro nomi? Alcuni sono ben noti come Ipazia di Alessandria, ammazzata dal fanatismo pseudo cristiano per essersi messa a studiare e aver avuto l’ardire di insegnare svolgendo un lavoro riservato agli uomini, tornata in auge nel 2009 per il film di Alejandro Amenábar Agorà e poi “ripiegata e riposta nel cassetto” per la prossima occasione, come molti fanno col Tricolore per i Mondiali, Artemisia Gentileschi, violentata dal maestro di pittura a cui l’aveva affidata il padre, o Hester Prynne, protagonista del romanzo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, condannata dalla comunità locale di puritani che te li raccomando a portare un simbolo significativo della sua vergogna per non aver voluto rivelare chi fosse il padre del frutto del peccato, come si diceva fino a non troppo tempo fa, pensiamo solo ai cognomi col prefisso certo non nobiliare de o della seguiti da nome femminile che indicavano il figlio di una ragazza madre, al divieto di nove mesi di convolare a nuove nozze per una vedova per essere certi di chi fosse il padre dell’eventuale nascituro, oppure, per restare in letteratura, il falso pudore nel tradurre in La Lucrezia violata il titolo dell’opera di William Shakespeare The Rape of Lucretia, perché la parola stupro, nel cartellone di un teatro sta proprio male!
Ci sono dei nomi che non troverete mai perché molte donne per poter studiare, agire e presentare le loro opere hanno dovuto usare pseudonimi maschili come quelli di Currer, Ellis e Acton Bell, scelti rispettivamente dalle scrittrici Charlotte, Emily e Anne Brontë, usati per sfuggire ai pregiudizi e ai costumi dell’epoca ottocentesca, come Nelle Harper Lee, del secolo scorso, autrice de Il buio oltre la siepe che rinunciò al primo nome per lasciare l’impressione di essere un uomo, o, peggio, di quelle donne che sono mogli o figlie vittime di quella violenza domestica che non trasuda dai muri perché per vergogna, per paura o per scarsa fiducia nelle Istituzioni, non hanno il coraggio di denunciare. I loro nomi purtroppo si leggono a cose fatte sulle loro tombe.
Per questo dobbiamo tener alta l’attenzione tutto l’anno, altrimenti a poco serve la carrellata di eventi del 25 novembre.