Archivio | aprile, 2018

VALORE DEL NOME

30 Apr

“25, martedì

Il ragazzo che mandò il francobollo al calabrese è quello che mi piace più di tutti, si chiama Garrone, è il più grande della classe ha quasi quattordici anni, la testa grossa, le spalle larghe; è buono, si vede quando sorride; ma pare che pensi sempre, come un uomo. Ora ne conosco già molti dei miei compagni. Un altro mi piace pure, che ha nome Coretti, e porta una maglia color cioccolata e un berretto di pelo di gatto: sempre allegro, figliuolo d’un rivenditore di legna, che è stato soldato nella guerra del 66, nel quadrato del principe Umberto, e dicono che ha tre medaglie. C’è il piccolo Nelli, un povero gobbino, gracile e col viso smunto. C’è uno molto ben vestito, che si leva sempre i peluzzi dai panni, e si chiama Votini. Nel banco davanti al mio c’è un ragazzo che chiamano il muratorino, perché suo padre è muratore; una faccia tonda come una mela con un naso a pallottola: egli ha un’abilità particolare, sa fare il muso di lepre, e tutti gli fanno fare il muso di lepre, e ridono; porta un piccolo cappello a cencio che tiene appallottolato in tasca come un fazzoletto. Accanto al muratorino c’è Garoffi, un coso lungo e magro col naso a becco di civetta e gli occhi molto piccoli, che traffica sempre con pennini, immagini e scatole di fiammiferi, e si scrive la lezione sulle unghie, per leggerla di nascosto. C’è poi un signorino, Carlo Nobis, che sembra molto superbo, ed è in mezzo a due ragazzi che mi son simpatici: il figliuolo d’un fabbro ferraio, insaccato in una giacchetta che gli arriva al ginocchio, pallido che par malato e ha sempre l’aria spaventata e non ride mai; e uno coi capelli rossi, che ha un braccio morto, e lo porta appeso al collo: suo padre è andato in America e sua madre va attorno a vendere erbaggi. È anche un tipo curioso il mio vicino di sinistra, – Stardi, – piccolo e tozzo, senza collo, un grugnone che non parla con nessuno, e pare che capisca poco, ma sta attento al maestro senza batter palpebra, con la fronte corrugata e coi denti stretti: e se lo interrogano quando il maestro parla, la prima e la seconda volta non risponde, la terza volta tira un calcio. E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra Sezione. Ci sono anche due fratelli, vestiti eguali, che si somigliano a pennello, e portano tutti e due un cappello alla calabrese, con una penna di fagiano. Ma il più bello di tutti, quello che ha più ingegno, che sarà il primo di sicuro anche quest’anno, è Derossi; e il maestro, che l’ha già capito lo interroga sempre. Io però voglio bene a Precossi, il figliuolo del fabbro ferraio, quello della giacchetta lunga, che pare un malatino; dicono che suo padre lo batte; è molto timido, e ogni volta che interroga o tocca qualcuno dice: – Scusami, – e guarda con gli occhi buoni e tristi. Ma Garrone è il più grande e il più buono”.

Nel libro Cuore, diario di Enrico Bottini, ragazzo di famiglia borghese di Franti solo una riga per una nota negativa.

Nomen omen, come dicevano i Romani? Certo è che molti bambini adottati dall’estero non gradiscono che sia loro cambiato o italianizzato il nome, anche se non comune, perché è l’unica cosa che posseggono e identifica la loro identità.

Nell’Iliade rammentiamo più il valore di Ettore, lo sconfitto. che quello di Achille, il vincitore che lo uccise in battaglia.

Nell’Antico Testamento, scritto da persone per le quali il nome era una componente della persona nel frangente della fuga da Sodoma in fiamme troviamo una persona certo conosciuta perché era la moglie di Lot, una delle poche di cui non conosciamo il nome, forse perché, avendo trasgredito l’ordine del Signore, non meritava di essere ricordata in quanto persona.

PERSONALITÀ

28 Apr

Quando capita, nei discorsi, cito tale Lucy van Pelt, e spesso mi chiedono chi sia.

Lucy”, rispondo “la sorella di Linus”. “Ah, ecco!”.

Lucy, antipatica, burbera, piena di sé, innamorata non corrisposta dell’aspirante pianista Schroeder, con il suo banchetto non di limonata come tutti i bambini americani ma di aiuto psicologico a 5 cent (se volete sostituite il nome e volgete gli aggettivi al maschile).

Lucy è unica, come me, come ciascuna e ciascuno di voi. Sarà per questo motivo che un giorno è sbottata con quel famoso

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Lucy non è  solo come la sorella di Linus, perché vive di vita propria, come accadde ad una copia di miei amici. Lui più famoso di lei che veniva citata spesso come “la moglie di Orazio”, finché, stufa di questa etichetta, una sera annunciò “urbi et orbi” “Io sono Giulia, non la moglie di Orazio!”.

È per questo motivo che sul mio biglietto da visita, oltre alla mia mitica barba, c’è il nome in grassetto e il cognome no. Perché anche il nome casale, o maritale per le donne sposate, è certamente utile ma secondario.

“ABBI CURA”

27 Apr

Amalimperfetto

Ci sono delle espressioni che in un’altra lingua o in un dialetto sono più pregnanti ed esprimono il concetto in un modo che l’italiano non rende.

Una di queste, che mi piace molto, è l’inglese take care, che esprime molto di più del nostro abbi cura.

Quando il Signore domandò a Caino dove fosse Abele questi rispose, “Non lo so, sono forse il custode di mio fratello?”. Penso che il Signore gli avrebbe ribattuto, “Sì, lo sei, perché io ho affidato lui a te e te a lui in un rapporto di reciproci amore e solidarietà” se la tragicità del momento non avesse richiesto una risposta ben più dura.

Take care of yourself corrisponde al nostro riguardati, che va dalla raccomandazione della mamma premurosa di indossare la famosa maglietta di lana a occasioni più serie riguardante la salute.

(In Italia abbiamo conosciuto l’espressione I care durante una campagna elettorale. I care, mi interesso (di te) ).

Ma il semplice take care, usato come saluto di commiato fisico o in calce a un’e-mail (sì, anche a una lettera, esistono ancora 🙂 ) o alla fine di una telefonata tra due persone che si vogliono bene, esprime l‘ἀγάπη agapé, l’amore fraterno e la ϕιλία, l’amore fra amici che una persona prova per l’altra, a differenza del nostro ciao o del tedesco servus, che etimologicamente esprimono solo disponibilità.

Va usato con parsimonia, verso le persone care, proprio affinché non diventi banale come gli americani sono riusciti a fare con love, amore.

DI GENITORI, RAGAZZI E SCUOLA

26 Apr

Dunque… gli arei non cadono più, almeno non dieci alla settimana come tempo fa, non ci sono più lanci dai massi di cavalcavia e gli episodi di bullismo e cyberbullismo si sono trasferiti dalla strada alla scuola.

La scuola, quella che, secondo una storpiatura del detto di Cicerone Historia magistra vitæ (De Oratore, libro II) diventata Scola magistra vitæ (La scuola è maestra di vita), dovrebbe insegnare a vivere in molti casi non lo è perché oltre al 6 politico, promozione d’ufficio, spesso l’insegnamento è ridotto a un susseguirsi di inutili nozioni anziché insegnare agli studenti a ragionare, sviluppare il loro senso critico e saper difendere le loro tesi. Lo si può fare, per gradi, dalle elementari evitando le domande a risposta chiusa e insegnando agli scolari ad esporre sia i fatti sia le le loro idee. Quando diciamo ad un bambino in età prescolare “tu non puoi capire” in realtà siamo noi a non saper trovare le parole adatte alla sua età a spiegare qualcosa (a cominciare dalle tristezze dei cavoli e delle cicogne).

Qualche giorno prima del 4 marzo qualcuno invitò coloro che si sarebbero recati al voto a dare un’occhiata all’interno delle scuole, degli avvisi permanenti scritti sciattamente a penna, al disordine nei corridoi, fino alle carte geografiche o altri manifesti 100 x 150 che probabilmente servono per coprire muffe sul muro, per rendersi conto dell’ospitalità del luogo dove i loro figli o nipoti trascorrono le mattine e sono formati. Alle elementari i bambini si siedono sugli stessi banchi senza che sia presa in considerazione la loro crescita fisica dai 70 ai 140 cm. Viste da fuori il biglietto da visita della scuola è la bandiera nazionale, in molti casi con i colori verde, grigio, rosso, perché non si sa a chi spetta mandarla in lavanderia.

Il 17 marzo scorso, giorno dell’unità nazionale, mio nipote ricevette la sua copia della Costituzione italiana da un addetto del personale ATA, senza alcuna spiegazione da parte degli insegnanti. Forse lasciar perdere gli Assiro-babilonesi concentrandosi sulla storia moderna aiuterebbe i ragazzi a comprendere il mondo in cui vivono.

L’assenza nella scuola italiana dell’educazione di genere, o affettiva, e dell’educazione civica, non aiuta i ragazzi e le ragazze al rispetto dell’altro e a costruirsi, come dovrebbero, una personalità all’interno della società, con diritti che conseguono al rispetto degli obblighi e non viceversa.

A fine maggio leggeremo sui quotidiani le ricorrenti polemiche sui pantaloni corti dei ragazzi e sulle minigonne delle ragazze che distolgono l’attenzione. Certo, questo è un compito che spetta in primo luogo alla famiglia, ma pretendere un abbigliamento consono al luogo di lavoro, perché tale è per gli studenti, aiuterebbe a far capire loro che si va a scuola a svolgere un lavoro, non solo per adempiere ad un obbligo di legge.

È di questi giorni l’innalzamento dell’età di accesso a Facebook e WhatsApp con il consenso dei genitori a 16 anni, per adeguarsi al prossimo GDPR, che molto probabilmente sarà seguito dagli altri Social Media. Occasione per i genitori di rammentare che le schede SIM sono intestate a loro in caso di figli minorenni ma anche, per coloro che non lo sanno di informarsi su cosa soni i Social Media e soprattutto, senza vietarli a priori, cominciare a parlarne con loro per responsabilizzarli, senza delegare tutto alla scuola o alla Polizia postale negli incontri con i giovani.

È presumibile che molti degli auguri di morte a Giorgio Napolitano in occasione del suo recente malore sui quali ora indaga la Polizia postale siano stati mandati da persone adulte, perché pochi ragazzini hanno una coscienza politica, e che molte di queste persone abbiano dei figli. Con questo tipo di genitori è poco sperabile che i figli abbiano rispetto dell’autorità in senso lato e di quella degli insegnanti in particolare.

Si diventa maggiorenni a 18 anni, ma ci sono tappe intermedie, tra le quali l’accesso gratuito ad alcune strutture, a 12 anni un ragazzino può usare da solo l’ascensore, a 14 anni può usare un ciclomotore, a 16 come abbiamo visto, con l’autorizzazione genitoriale, usare Facebook e WhatsApp, e svolgere un lavoro temporaneo, a 17, assistito da un maggiorenne patentato, iniziare la scuola guida che gli permetterà di conseguire la patente a 18. Visti i cambiamenti del contesto sociale dovuto non solo all’ammodernamento delle tecnologie, è stato richiesto da più un abbassamento dell’età della punibilità civile.

Di stalking, bullismo e cyberbullismo si parla e se ne dovrà continuare a parlare soprattutto per mettere in guardia gli ingenui, adolescenti e ma anche adulti, che non sono in grado di valutare le conseguenze delle loro azioni sugli altri e su se stessi, ma, riflettendo sui filmati di quegli studenti di Lucca, diventati l’ultimo simbolo mediatico del cyberbullismo nella scuola viene da domandarsi se ai ragazzi che sono stati bocciati la cosa interessa o il provvedimento sia scivolato loro addosso perché “scaldano i banchi” in attesa del compimento del sedicesimo anno di età, per liberarsi di un obbligo di legge che ritengono scomodo.

A PROPOSITO DI ALFIE EVANS

24 Apr

Scrivevo il 17 novembre scorso, ma tuttora valido nella sua attualità. I cattolici e i pro life dovrebbero leggere attentamente soprattutto il Messaggio del Santo Padre al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita.

ATTUALITÀ

22 Apr

Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e il Signore li consegnò nelle mani di Madian per sette anni. La mano di Madian si fece pesante contro Israele; per la paura dei Madianiti gli Israeliti adattarono per sé gli antri dei monti, le caverne e le cime scoscese. Ogni volta che Israele aveva seminato, i Madianiti con i figli di Amalèk e i figli dell’oriente venivano contro di lui, si accampavano sul territorio degli Israeliti, distruggevano tutti i prodotti della terra fino alle vicinanze di Gaza e non lasciavano in Israele mezzi di sussistenza: né pecore né buoi né asini. Venivano, infatti, con i loro armenti e con le loro tende e arrivavano numerosi come le cavallette – essi e i loro cammelli erano senza numero – e venivano nella terra per devastarla. Israele fu ridotto in grande miseria a causa di Madian e gli Israeliti gridarono al Signore. (Giudici 6:1-6).

Più di qualcuno dovrebbe rileggere questo brano.

IL CAPITANO MARIA

22 Apr

Pare proprio che in Rai, emittente di servizio pubblico, non riescano a declinare i sostantivi al femminile.

Dopo la fiction Romanzo famigliare e il primo episodio dell’undicesima serie di Don Matteo, in cui la capitana dei carabinieri si presenta al maschile, il 7 maggio prossimo la Rai ci proporrà Il capitano Maria, che a suo modo racconta la storia della comandante dell’Arma dei Carabinieri Maria Guerra.

Pare proprio che la Rai sia rimasta negli anni ‘50 nei quali Dino Risi produsse la fortunata serie “Pane, amore e…” e in cui la ragazza di paese per il suo comportamento mascolino che metteva in imbarazzo il giovane appuntato veneto, era chiamata scherzosamente “la marescialla”.

Scherzosamente, perché negli anni ‘50 non c’era il servizio militare femminile, ma soprattutto perché il femminile nelle cariche istituzionali non era usato.

Settant’anni dopo per la Rai, così come per molti giornali che bene, o come in questo caso, male influiscono il loro pubblico meno attento, il femminile nelle cariche istituzionali continua a non esistere, nonostante da più parti e in diverse forme sia stata fatta notare questa lacuna.

Oltre al palese errore grammaticale della mancata concordanza di genere – provate a dire “Il mio amico Maria” – non voler riconoscere il femminile nell’indicazione nelle cariche istituzionali è una forma di violenza di genere in quanto annulla la specificità femminile e sottintende la sottomissione della donna.

LA PUNTA DELL’ICEBERG

21 Apr

Riferisce Il Piccolo, quotidiano di Trieste, che giovedì scorso un genitore è intervenuto aggredendo verbalmente e fisicamente un docente per difendere i supposti diritti del figlio nei confronti di quest’ultimo. A Trieste, ma potrebbe essere accaduto dovunque.

A differenza dei fatti di Lucca questa volta non c’è stato alcun filmato diffuso sui Social Media e lo strumento elettronico è servito allo studente solo per comunicare il fatto al genitore. Quindi, a ben vedere il problema sta alla radice.

L’articolo non dice se si è trattato di un ragazzino di prima impaurito (?) o uno di quinta dal quale, sebbene non ancora maggiorenne ci si aspetta una certa maturità. Maturità che sembra essere mancata anche al genitore che, lasciata la sua occupazione, si è precipitato a scuola a difendere quelli che secondo lui sono i diritti inviolabili del figlio, senza pensare che questi ha, prima dei diritti da esigere, dei doveri da rispettare.

Forse un passo avanti si farebbe invertendo l’ordine dei termini e dei concetti che ne derivano, anteporre cioè i doveri ai diritti e non, come si fa abitualmente, parlare di diritti e doveri.

Qualcuno parla di classi sociali. Certo è che una persona per bene trova mezzi più civili per colloquiare sia con il figlio (ultimamente sempre più genitori “dialogano” con i figli via WhatsApp!) sia con il docente se proprio non gli riconosce un ruolo educativo che può e deve passare anche per un rimprovero.

La scuola nell’occhio del ciclone, ma è solo la, pur grossa, punta dell’iceberg.

Assistiamo ogni giorno a fenomeni di grande o microcriminalità, dai femminicidi che ormai sono quasi quotidiani, alla guida senza patente o senza assicurazione, ai troppi coltelli estratti per un nonnulla, e già il fatto che delle persone li abbiano con sé dovrebbe far pensare, e tutto il resto.

Faremo in tempo a cambiare rotta o ci scontreremo contro quell’iceberg che troncò sul nascere la fama del Titanic?

METTERSI IN GIOCO

21 Apr

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Mettersi in gioco, superare i limiti autoimposti che spesso sono scuse, essere convinti delle proprie idee e saperle difendere ma allo stesso tempo aperti al nuovo, alle idee dell’altro.

Mettersi in gioco, ma non a un tavolo da poker.

Mettersi in gioco, forse si può perdere, ma ci si può rialzare.

Mettersi in gioco, a stare fermi non si conclude nulla e si invecchia prima.

Mettersi in gioco, vivere!

Facile? Può darsi, io non l’ho scritto.

PUNTO

20 Apr

Il punto, ci hanno insegnato in geometria, esiste ma non ha dimensioni. Sappiamo di lui perché se tracciamo un segmento tra il punto A e il punto B otteniamo una sequenza di punti chiamata linea, di una certa lunghezza, se poi tracciamo una linea solo dal punto A essa tende all’infinito e se eliminiamo il punto A di partenza abbiamo una linea senza inizio né fine, e già qui per la nostra comprensione cominciano i guai. L’infinito è n+1 e si annota con il simbolo ∞ (8 disteso).

Oltre al punto ci sono molte cose che non vediamo, non udiamo, come gli ultrasuoni percepiti da altre specie animali, o non sentiamo, nel senso etimologico del termine.

Molte cose intorno a noi non le vediamo non perché sono invisibili, ma piuttosto perché i nostri stili di vita ci hanno tolto l’abitudine, o meglio, il gusto, di soffermarci sui particolari.

Accade così che in una città ci si accorga dei cambi di stagione non dai fenomeni naturali ma dalla differenza dei capi di abbigliamento esposti nelle vetrine dei negozi. Sempre in città siamo così abituati a guardare davanti a noi che ci accorgiamo della bellezza architettonica di alcuni palazzi solo leggendo una guida o quando un nostro ospite, certo più interessato di noi, ce li fa notare.

Non udiamo il nostro interlocutore perché abbiamo dimenticato che dialogo vuol dire sì parlare in due (dal greco dua logos), ma uno per volta e non nel medesimo tempo come purtroppo spesso accade. È una elementare questione di on/off, quando parli tu io ascolto (e non penso già come risponderti!) e viceversa, come nelle comunicazioni unidirezionali in cui si aspetta che l’altro dica “passo” per cominciare a parlare.

La società postmoderna ci ha privato anche di parte dei sentimenti, come la bellezza di mandare o ricevere una lettera scritta a mano. Al piacere dell’aspettativa si è sostituita l’ansia della comunicazione. “Ti ho mandato una mail” spesso è il testo di una telefonata o di un sms, pretendendo che il destinatario la legga ma soprattutto risponda subito. Lo stesso corteggiamento, che è sempre stato alla base della conoscenza tra due persone e del loro eventuale innamoramento, sottostà alla fretta che ci siamo imposti, spesso bruciando tappe che non potranno più essere vissute.

L’infinitamente piccolo ci conduce necessariamente al concetto di tempo, che, come sappiamo, è una delle tante convenzioni umane. Il presente di per sé non esiste perché nell’attimo in cui lo viviamo e già passato. È per questo motivo che i verbi nella lingua ebraica non hanno un tempo presente come lo intendiamo noi ma usano il futuro (“Io sarò colui che sarò” è la traduzione letterale dell’”Io sono colui che sono” il nome con cui l’Eterno dice a Mosè di indicarlo agli ebrei), e nella lingua inglese distinguiamo tra “I am going” (sto andando) e “I go” (vado abitualmente).

Il mare è proverbialmente una somma di gocce e ci rendiamo conto che un deserto, o più banalmente una spiaggia, è in realtà una somma di granellini quando, dopo la doccia tornati dalla spiaggia, ce ne troviamo ancora qualcuno addosso.

Quante cose “infinitamente piccole”, anche se più grandi del nostro punto, si possono scoprire se, abbandonato il Centro commerciale, facciamo un giro con attenzione tra cassetti e contenitori in vetro della vecchia bottega sotto casa o se, lasciata l’autostrada, ci addentriamo nella foresta di strade secondarie poco frequentate, ma con dei tesori nascosti al viandante veloce.