Archivio | novembre, 2019

FRIDA

29 Nov

Nome proprio, f. s.

Di Frida si è cominciato a parlare di recente con riferimento a Frida Kahlo, all’anagrafe Magdalena Carmen Frida Khalo y Calderon, la selvaggia, passionale e sfortunata pittrice messicana, recentemente riscoperta dalla critica e da me scoperta grazie a una persona cara.

Frida è la versione spagnola del nome tedesco Friede, che significa pace. Χάρις καὶ εἰρήνη , “grazia e pace” è il saluto che troviamo all’inizio di molte lettere dell’apostolo Paolo. In italiano ne troviamo traccia nella locuzione ora in disuso “spirito irenico” e nel nome proprio Irene.

Per questo motivo il padre della bambina, di origini tedesche, si trovò a discutere con il parroco come quando, nella saga di Mondo piccolo, il comunista, ateo e filosovietico compagno Peppone va a far battezzare il figlio e vuole chiamarlo Lenin. Don Camillo risponde che non se ne parla proprio e che con quel nome vada a farlo battezzare al Cremlino. Poi, come con il padre di Frida, trovano un compromesso e lo chiamano Libero Camillo Lenin “perché vicino a Camillo Lenin non può nuocere”.

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Qualche pagina prima si dice che Frida sia nata il 6 luglio 1907… o il 7 luglio 1910, e quando sedicenti biografi, universitari, giornalisti, studenti e amici rimanevano confusi per questa incertezza lei ricorda che in Messico più della metà della popolazione non conosce la propria data di nascita per pura ignoranza o perché tutti si destreggiano allegramente a seconda degli interessi amministrativi…

Non occorre però andare fino in Messico, basta pensare ad alcune comunità rurali o di montagna, quando le donne in Italia partorivano in casa e c’erano i campi e gli armenti da curare… si andava a far denuncia nel primo giorno che si andava fino in paese. Nel dopoguerra c’è stato qualche nato in dicembre denunciato il 1° gennaio, per spostare la leva in caso di un’altra guerra, con il risultato che è in guerra no, ma in pensione ci è andato con un anno di ritardo. Un mio vicino rimpatriato dall’Istria nell’immediato dopoguerra si chiama Giusto con un cognome slavo, perché quando andò a registrarsi all’anagrafe italiana l’impiegato gli mostrò come aveva scritto il nome e lui rispose “giusto”, e l’impiegato corresse in “Giusto” sui registri di anagrafe… molto prima delle odierne truffe telefoniche.

Come dire che i particolari possono cambiare a seconda del Paese, ma la sostanza è la stessa in Messico, nella Bassa (padana) o nelle nostre campagne.

AMALIA

22 Nov

Nome proprio, f. s.

Per fare chiarezza non ha alcun riferimento con l’amore, ma deriva da un termine germanico che significa “perseverante sul lavoro”. Chissà quanti neogenitori avranno confuso. Una mia compagna delle medie si chiamava Amorina, che è tutta un’altra storia.

Lo cito nella la mia onomastica perché Amalia, scritto su un badge giallo, è il nome di una sportellista delle Poste di una gentilezza unica con la quale mi capita di interfacciarmi spesso.

Una cosa infatti è la burocrazia dei vari uffici pubblici o privati con cui abbiamo a che fare, un’altra sono le persone che volta per volta li rappresentano e che non smettono il loro modo di essere neanche vestendo una divisa (o in questo caso un badge). Tra queste c’è la signora Amalia.

DI TRADIZIONI E PLAGI

20 Nov

Perla era nata reietta dal mondo infantile. Rampollo di male, emblema e frutto di peccato, non aveva il diritto di frequentare i bambini battezzati. Nulla era più notevole dell’istinto, ché tale appariva, con cui la piccina comprendeva la propria solitudine; il destino che le aveva tracciato intorno un cerchio inviolabile; tutta la particolarità, infine, della sua situazione rispetto a quella dei coetanei. Mai, dopo la scarcerazione, Hester aveva affrontato gli occhi della gente senza di lei. In tutti i suoi tragitti per la città non mancava mai Perla; prima, pargoletta in braccio, poi fanciullina, minuscola compagna della madre, di cui stringeva un dito nel piccolo pugno, mentre saltellava tutta svelta per non restarle addietro. Vedeva i bimbi della colonia sul margine erboso della strada o sulla soglia di casa, baloccarsi nei tristi modi consentiti dall’educazione puritana; giuocando ad andare in chiesa; o a fustigare i quaccheri o a scotennare gli indiani in finte battaglie; o a farsi scambievolmente paura con strambe imitazioni di stregoneria. Perla stava a guardarli, non perdeva nulla della scena, ma non cercava mai di stringere amicizia. Interpellata, non rispondeva. Se i bambini facevan capannello intorno a lei, diventava davvero terribile nella sua piccola rabbia, brandiva dei sassi per colpirli, con certi strilli acuti, incoerenti, che facevan tremare la madre perché somigliavano tanto agli anatemi lanciati da una versiera in una lingua sconosciuta.

Fatto sta che i piccoli puritani, appartenendo alla genia più intollerante che sia mai vissuta, s’eran formati una vaga idea d’alcunché di bizzarro, di soprannaturale, o in contrasto con le abitudini correnti, nella madre e nella figlia; e perciò le disprezzavano in cuor loro, e non di rado le vilipendevano ad alta voce. Perla avvertiva quel sentimento, e lo ripagava con l’odio più fiero che possa esacerbare un seno infantile”.

Quando parliamo di integralisti la nostra mente va agli ebrei vestiti di nero, con le filatterie e col cappello nero oppure ai fanatici islamisti che nulla hanno a che vedere con gli islamici e che con i loro attentati stanno seminando il terrore in mezzo mondo, islamico compreso.

Non dimentichiamo però che anche una parte del cristianesimo quanto a fondamentalismo e intolleranza non fa tanta bella figura. Il cristianesimo che come comando principale ha “Ama Dio sopra ogni cosa e il tuo prossimo come te stesso”, o per dirla con Agostino d’Ipponia “Ama e fa ciò che vuoi”, si scontra con i principi non negoziabili di alcuni e le rivalità di altri.

Quello che ho riportato è un brano tratto da La lettera scarlatta, di Nathaniel Hawthorn, nato a Salem, Massachusset. Quella Salem che nel 1692 visse la triste vicenda della caccia alle streghe che portò sul rogo tante donne per il semplice sospetto, ovviamente mai provato, di stregoneria, ben proposto tra gli altri da Arthur Miller nella commedia Il crogiolo.

Pubblicato nel 1850, il romanzo di Nathaniel Hawthorn, con i temi del peccato, della grazia e del perdono è ambientata nella Boston del 1642, appena cinquant’anni prima della caccia alle streghe, in quell’America bigotta dei Puritani, eredi dei Padri Pellegrini che tanto brave persone non furono, che tra le opzioni preferirono la condanna dell’adultera protagonista non a morte come la loro legge avrebbe comandato ma a continuare a vivere ai margini della società con la lettera A di adultera sul vestito finché non avesse confessato con chi aveva consumato il peccato.

La frase in neretto ben evidenzia come tutto ciò e l’educazione che ne conseguiva, influenzavano i bambini che giocavano ad andare in chiesa.

Tutto ciò avveniva nel diciassettesimo secolo ed è stato riproposto da uno scrittore un secolo dopo, ma certi fenomeni, spesso i peggiori, sono duri a morire.

Nel 2016 Ken Follet, scrittore che certo non ha bisogno di presentazioni, ha pubblicato Cattiva fede, la storia del plagio da lui subito, proprio come i bambini di Boston del romanzo, e conseguente allontanamento dalla fede.

È dovere dei genitori allevare e istruire i figli, e dell’istruzione fa parte la trasmissione delle credenze religiose, ma non si deve mai plagiarli o privarli della loro personalità e delle occasioni che hanno, crescendo, di fare le proprie scelte anche non condivise dai genitori.

(È interessante che il libro di Ken Follet nel testo italiano cita i riferimenti biblici, cosa che non fa in quello inglese, perché nel mondo anglofono la conoscenza delle Scritture è un dato assodato).

I NOSTRI QUATTORDICENNI

17 Nov

Trio

Sabato 16 novembre Ra1 ha dedicato un omaggio a Fabrizio de André che è servito a dimostrare che ci sono delle canzoni che non possono essere interpretate da altri pur validi cantanti ma soprattutto che le sue non sono canzonette ma poesie musicate, alcune delle quali, come La guerra di Piero, hanno già trovato posto nei testi scolastici.

Fabrizio De André, credente a modo suo come dev’essere ognuno di noi perché il cristianesimo non è una religione collettiva ma una fede personale nel repertorio delle sue canzoni più famose annovera tre canzoni che parlano di prostituzione: La canzone di Marinella, Via del Campo e la più esplicita Bocca di Rosa, la donna che reca scompiglio nel paesino di Sant’Iliario andandovi a esercitare il cosiddetto mestiere più antico del mondo, secondo l’espressione usata da Rudyard Kipling.

Ne ho già scritto tempo fa in questo post prendendo spunto dai buoni consigli di una delle vecchie di Sant’Ilario.

Riparlarne solo in occasione di un evento televisivo sarebbe sterile se non si traessero e si riproponessero delle considerazioni relative ai giovani che forse il sabato sera non guardano la televisione.

La prima, consolidata, è che la prostituzione e il relativo sfruttamento che in Italia è reato non esisterebbero se non ci fosse una richiesta, come ha bene spiegato il giornalista Riccardo Iacona nel suo saggio Utilizzatori finali a proposito delle ragazzine di Roma e sarebbe ingenuo pensare che il fenomeno sia terminato lì.

La seconda e in questo momento più importante, è che l’età della violenza sessuale, in virtù della presunta predominanza del maschio, si è abbassata a 14 anni e ciò non dovrebbe ma deve far riflettere i genitori delle ragazze e dei ragazzi, in modo da porre rimedio. Con le ragazze incoraggiandole a stare in guardia e a mantenere i contatti sani con l’altro genere per non cadere nella trappola del “gli uomini sono tutti uguali”, con i ragazzi spiegando che l’essere umano non agisce per istinto, ma può e deve imparare a dominare i suoi desideri e a esprimerli nel modo corretto considerando sempre le ragazze non come femmine ma come persone.

Concetti che in questo mese più di qualcuno esprimerà per poi tirarli fuori dal cassetto nel novembre 2020.

In assenza di una politica di educazione di genere nella scuola sulla quale ormai non c’è alcuna speranza salvo un un improbabile cambiamento radicale di prospettiva, il compito spetta ai genitori, ed è un compito troppo importante per cadere nel “non ho tempo”. Coloro che non riescono a parlarne con i figli dovrebbero cercare aiuto sul territorio, a cominciare dai Consultori familiari o dalle associazioni di volontariato composte da persone competenti, prima che i figli si confrontino con i loro pari o con il “dottor Google” che già tanti danni sta facendo in medicina.

A proposito di Rudyard Kipling e di linguaggio di genere, avete fatto caso che a fronte del “p. Eva” non c’è un corrispettivo che riguardi Adamo? Anche questa è una forma di discriminazione che nel 2019 non dovrebbe più esistere.

(foto Ra1)

NOMI

8 Nov

Maria, una signora di Milano colloquialmente chiamata “la Maria”, forse parente della più famosa casalinga di Voghera, che se capisce lei capiscono tutti (anche perché le vogheresi si sono lamentate).

Bortolo, quello che, dicono, si confessa ridendo.

Tommaso, il diffidente che crede solo se vede.

Caterina, che quando diventa zia… ma questo lasciamolo perdere perché se no la Nipota se la prende a male, magari ve la racconto un’altra volta.

Carolina, che per anni ha identificato una mucca. Poi intervenne lo IAP a vietare quella pubblicità perché una bambina veniva presa in giro a scuola.

Milka, nome slavo. “Milka” mi disse un giorno una signora bosniaca “proprio come la cioccolata!”.

Vittoria, non proprio come Italia, Libera, Roma che auspicavano il ritorno di Trieste all’Italia, ma imposto alla nascita a una bambina come auspicio della promozione della squadra di calcio, che retrocedette.

Per dire che non ci sono solo le Addolorate e  i Crocifissi!

 

 

 

 

CAMBIA LE PAROLE, CAMBIERAI IL MONDO

5 Nov

C’era un cieco seduto in una via della zona pedonale con il suo barattolo per le elemosine e il suo cartello “SONO CIECO. AIUTATEMI”.

Ogni tanto sentiva il rumore di un soldo, ringraziava e dopo averlo cercato lo metteva nel barattolo. Ben poca cosa, però, si sa… la gente va di fretta.

Passò oltre una persona (no, non il buon samaritano, ma quasi), tornò sui suoi passi, prese il cartello e, rovesciatolo, scrisse qualcosa.

Fu così che quasi ogni passante lasciò un soldo.

Quando il passante tornò fu riconosciuto dal cieco che gli chiese cosa avesse scritto. Il passante lesse il cartello. C’era scritto “OGGI È UNA BELLA GIORNATA. IO NON POSSO VEDERLA”.

Basta poco per convogliare un messaggio più efficace!

L’esempio forse più famoso è Gesù, quando dice di non essere venuto ad abolire la legge, ma a compierla. In Matteo 5 propone alcuni dei comandamenti principali. Non li annulla, anzi, li rafforza, portandoli dal piano giuridico al piano etico. Questa è la forza dell’espressione “ma io vi dico”.

A me torna in mente l’apostolo Paolo quando ad Atene vede gli altari dedicato i vari dei dell’Olimpo, compreso quello “al dio sconosciuto”… non si sa mai. Racconta Luca che “fremeva nello spirito”.

Quando incontrò gli ateniesi all’Aeròpago, il luogo dove si riunivano per discutere, disse loro così:

Ateniesi, vedo che, nonostante tutta la vostra cultura, i vostri filosofi epicurei e stoici, non avete capito niente, tanto che, pavidi come siete, avete costruito un altare “A un dio ignoto”. Siate seri e cercate di darvi una regolata! Io sono qui per spiegarvi proprio come funzionano le cose”.

Suona strano, eh? Un discorso così oltre che essere offensivo l’avrebbe lasciato solo, nella migliore delle ipotesi

Questo è il resoconto di come in realtà andò: “Allora Paolo, in piedi in mezzo all’Areopago, disse: “Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”. Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti”. (Atti 17:22-31).

Paolo pone l’enfasi sulla qualità positive degli ateniesi “siete molto timorati degli dei”, e da questa realtà comincia ad evidenziare il loro errore e proporre loro la verità. Senza scendere a compromessi o mezze verità. Anche questo è farsi “giudeo con il giudeo e greco con il greco”, richiamando una sua espressione .

Diverso invece è l’atteggiamento di Gesù verso gli scribi e i farisei, che chiama “ipocriti”, perché loro sì conoscevano le Scritture.

Oggigiorno quasi tutti i discorsi importanti non sono pronunciati “a braccio” ma sono studiati e scritti in anticipo, spesso da uno speach writer (redattore di discorsi) che sceglie le parole giuste, le pause e tutto il resto”. Lo sappiamo perché spesso sono dati in anticipo alle agenzie di stampa con l’obbligo di non diffonderli, e quando l’oratore stravolge il discorso preparato o aggiunge qualcosa si dice che “parla a braccio”, cioè improvvisa.

E noi? Coscienti o meno siamo tutti comunicatori, anche se non abbiamo mai parlato in pubblico o in un’occasione ufficiale. La vita umana è fatta di relazioni, e le relazioni iniziano con la parola.

Scegliere le parole giuste non è segno di ipocrisia o mancanza di spontaneità. In molte occasioni è importante, ed è sicuramente un valore aggiunto al pensiero che trasmettiamo.

Possiamo dire l’ineccepibile “Ti voglio bene”, che però è un po’ abusato oppure “Sei importante per me” che è la stessa cosa ma trasmette certamente un messaggio positivo a chi lo riceve, oppure, con persone che non vediamo da un po’ evitiamo il “Come stai?”, ma salutiamo con un “Dimmi di te.”

ESSENZIALE

2 Nov

ESSENZIALE

L’essenziale è invisibile agli occhi, ricorda la volpe al Piccolo Principe.

Di quanta roba inutile – “roba” nel senso verghiano nei Malavoglia – ci circondiamo? Inutile – inutile, nel senso che potremmo tranquillamente farne a meno o che, come troppo spesso succede, abbiamo comperato e non sappiamo più di avere a casa.

Ognuno faccia la propria lista, che non deve necessariamente di privazioni. Gesù, a chi obiettava che l’olio con cui la peccatrice gli ungeva i piedi asciugandoli con i capelli si sarebbe potuto vendere e il ricavato darlo ai poveri, rispose “Lasciatela fare, i poveri li avrete sempre con voi”. Frugalità non è sinonimo di povertà.

Scrive Luis Sepúlveda in Il potere dei sogni che ha fatto spazio nella sua biblioteca perché non ha senso tenere i libri di facile reperibilità.

Un buon esercizio è pensare a come riempiremmo la valigia per un volo low cost, dove si sa che le compagnie si rifanno sul peso dei bagagli. “Questo sì, questo no, questo non so, questo mi è proprio indispensabile, questo costa poco e lo ricompro all’arrivo”.

Finiremo col fare spazio a casa, o sugli scaffali della libreria, ma soprattutto nel nostro stile di vita educandoci ad un acquisto e ad un consumo più consapevoli che di questi tempi – a prescindere dalle possibilità economiche di ciascuno – non è da poco.

L’esempio attuale è la sostituzione della bottiglietta di plastica con la borraccia. Ci sono certo occasioni in cui non è possibile, anche se prima o poi diventerà un accessorio accettato come lo Smarty,  così come non è opportuno presentarsi ad un incontro con la borsa della spesa, ma nella maggior parte delle volte si può fare.

LA PANCHINA ROSSA NON È VUOTA

1 Nov

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La panchina rossa di novembre non è vuota come potrebbe sembrare.

È affollata da tutte quelle donne la parola delle quali nei millenni non è stata ritenuta degna di credibilità, che a differenza degli uomini hanno dovuto dimostrare la loro innocenza anche con atti umilianti, come l’esposizione del lenzuolo nunziale a testimonianza della loro castità prematrimoniale, che sono state messe al rogo senza troppi scrupoli come le presunte streghe di Salem, che contrariamente a quanto prevede la nostra Costituzione non hanno ancora, a fine 2019, ottenuto la parità di rango, anche solo la parità salariale, che fin dalla nascita sono state considerate improduttive, dei maschi mancati ben espresso nel detto siciliano “nottata persa e figlia femmina” alla nascita di una bambina, anche se sappiamo che le donne sono state e sono le colonne portanti della società e dell’economia, che, nelle parole di Emilio Brentani in Senilità, romanzo di Italo Svevo, non sono state e nella mentalità di molti non sono tuttora “piú di un giocattolo”, da abbandonare o spesso ammazzare dopo l’uso. Le donne oggetto di matrimoni combinati, non solo “ai piani alti” per conservare la dinastia di un impero o di un regno, ma anche terra terra, oggetto di accordi tra famiglie per i matrimoni riparatori in seguito a un abuso, ai quali per prima seppe opporsi con fermezza Franca Viola, ragazza di 17 anni negli anni ‘60 in Sicilia, rendendo inefficace l’articolo 544 del Codice Penale, le donne da sempre bottino di guerra a soddisfazione dei vincitori, e se non violentate rapite contro la loro volontà, come nel ratto delle Sabine che ci hanno insegnato alle elementari, quando eravamo troppo piccoli per capire, d’altra parte era la storia della costruzione di Roma vuoi mettere?

I loro nomi? Alcuni sono ben noti come Ipazia di Alessandria, ammazzata dal fanatismo pseudo cristiano per essersi messa a studiare e aver avuto l’ardire di insegnare svolgendo un lavoro riservato agli uomini, tornata in auge nel 2009 per il film di Alejandro Amenábar Agorà e poi “ripiegata e riposta nel cassetto” per la prossima occasione, come molti fanno col Tricolore per i Mondiali, Artemisia Gentileschi, violentata dal maestro di pittura a cui l’aveva affidata il padre, o Hester Prynne, protagonista del romanzo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, condannata dalla comunità locale di puritani che te li raccomando a portare un simbolo significativo della sua vergogna per non aver voluto rivelare chi fosse il padre del frutto del peccato, come si diceva fino a non troppo tempo fa, pensiamo solo ai cognomi col prefisso certo non nobiliare de o della seguiti da nome femminile che indicavano il figlio di una ragazza madre, al divieto di nove mesi di convolare a nuove nozze per una vedova per essere certi di chi fosse il padre dell’eventuale nascituro, oppure, per restare in letteratura, il falso pudore nel tradurre in La Lucrezia violata il titolo dell’opera di William Shakespeare The Rape of Lucretia, perché la parola stupro, nel cartellone di un teatro sta proprio male!

Ci sono dei nomi che non troverete mai perché molte donne per poter studiare, agire e presentare le loro opere hanno dovuto usare pseudonimi maschili come quelli di Currer, Ellis e Acton Bell, scelti rispettivamente dalle scrittrici Charlotte, Emily e Anne Brontë, usati per sfuggire ai pregiudizi e ai costumi dell’epoca ottocentesca, come Nelle Harper Lee, del secolo scorso, autrice de Il buio oltre la siepe che rinunciò al primo nome per lasciare l’impressione di essere un uomo, o, peggio, di quelle donne che sono mogli o figlie vittime di quella violenza domestica che non trasuda dai muri perché per vergogna, per paura o per scarsa fiducia nelle Istituzioni, non hanno il coraggio di denunciare. I loro nomi purtroppo si leggono a cose fatte sulle loro tombe.

Per questo dobbiamo tener alta l’attenzione tutto l’anno, altrimenti a poco serve la carrellata di eventi del 25 novembre.