I CENTRI PER L’IMPIEGO

2 Nov

Per un giorno non sono un giornalista. Sono un disoccupato. Un disoccupato che, come tanti, cerca un posto di lavoro senza risultati. E che quindi ha bisogno dell’aiuto pubblico. Vorrei chiedere il “reddito di cittadinanza” – o come si chiamerà – o una qualunque altra forma di sostegno che possa darmi una mano per fare la spesa e pagare un affitto in attesa che la mia situazione personale possa finalmente sbloccarsi”. Comincia così il resoconto pubblicato oggi 2 novembre di “Un giorno da disoccupato in coda con il miraggio del reddito di cittadinanza”, di Giampaolo Sarti, giornalista del Piccolo. Di Trieste ma probabilmente potete mettere la città che volete voi, a scelta.

Sarà una giornata tra uffici, Caf e code. Mia, Rei e altri acronimi poco comprensibili assieme a Isee, Isre, Dsu, Ivie, Dis-coll, Did, Cud, Naspi, Irap, Imu e Aire.

Questa è, giorno dopo giorno dopo giorno, la realtà dei disoccupati che non hanno ancora smesso di cercare lavoro e che, giorno dopo giorno dopo giorno, si scontrano con la burocrazia degli uffici imprigionata nella sua modulistica a risposta chiusa che non prevede eccezioni neppure se sei nato in Jugoslavia, che non esiste più, e non puoi scrivere Croazia perché il codice Istat (le ultime tre cifre prima del codice di controllo) del tuo codice fiscale non la riconosce.

Quella burocrazia ingessata on line che non tiene conto che molti anziani ma neanche tanto, perché il tasso di alfabetizzazione informatica in Italia è basso, non sanno riempire un modulo on line e si trovano spiazzati se, quando finalmente premono Enter, si vedono rifiutata la domanda perché non hanno riempito un campo obbligatorio anche se fuori legge, come il campo “Provincia” in una regione, il Friuli Venezia Giulia, dove le province non esistono più e non sanno risolvere l’enigma se inserire o meno la sigla della ex provincia (GO, PN, TS, UD) perché così facendo commettono un falso in atto pubblico, che tra tre, quattro o cinque anni qualche zelante burocrate potrebbe contestare loro.

Quella burocrazia ingessata fatta di risponditori automatici “premi 1, pigia 2, fraca 3” dopo di cui, essendo nove volte su dieci tutti gli operatori impegnati “ti invitano a rimanere in linea per non perdere non si sa bene quale priorità acquisita, mentre i call center di alcune aziende serie ti rispondono con “enne persone in attesa, tempo previsto tot minuti”, e ti intrattengono con l’inflazionata Quattro stagioni di Vivaldi. Offensiva soprattutto nei confronti delle persone anziane, poco avvezze all’uso della tastiera del cellulare (che chiamano telefonino) mentre stanno parlando.

La sostanziale differenza è che loro sono l’istituzione (a diversi livelli) e tu sei un numero. Il codice fiscale o quello della coda, a scelta.

Non c’è nulla di nuovo in questo post, perché dei CPL leggiamo ogni giorno, salvo l’attesa del riordino dei CPL promesso dal ministro Luigi Di Maio, l’articolo di oggi su Il Piccolo e il film Io, Daniel Blake, che ho visto ieri sera e visibile su Raiplai.it che è ambientato in Inghilterra ma presenta gli stessi problemi.

Di nuovo forse, per voi che non lo sapete, è che io non sono della scuola “mal comune mezzo gaudio”, perché un male comune non è una consolazione, si sta male in due e basta.

Cambierà qualcosa?

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